di Stefano De Martis
Com’era ampiamente prevedibile, i cinque referendum sulla giustizia non hanno raggiunto il quorum richiesto per la validità della consultazione. Ma la partecipazione è stata così bassa – la più bassa di sempre: il 20,9% – da esigere una riflessione schietta sia sull’istituto del referendum abrogativo in sé, sia sui quesiti al centro di questa specifica tornata. Sotto il primo aspetto, il nodo da sciogliere sta nella contraddizione tra l’accresciuta facilità dell’iniziativa referendaria e il “muro” del quorum, divenuto praticamente insuperabile.
Da un lato, infatti, il requisito delle 500 mila firme, fissato quando gli elettori erano circa 29 milioni, è ormai inadeguato rispetto a un corpo elettorale di oltre 50 milioni, tenuto conto che l’aver sdoganato la raccolta in forma digitale delle sottoscrizioni ha reso l’operazione estremamente più agevole. Dall’altro lato, il consolidarsi di un astensionismo di base molto più alto che in passato, come si verifica costantemente nelle consultazioni politiche, ha trasformato in un’impresa ai limiti dell’impossibile il raggiungimento del 50% più uno degli aventi diritto al voto. È come se si partisse da sotto zero, insomma. Per evitare la mortificazione di un importante strumento di democrazia diretta, quindi, si dovrebbe ridurre il quorum, o quanto meno rapportarlo alla quota di partecipazione delle più recenti elezioni parlamentari.
Quando però va alle urne solo un elettore su cinque, com’è accaduto il 12 giugno, non è una questione di quorum. Al netto di ogni altra possibile e lecita considerazione sulle cause, quel che emerge è un radicale scollamento dell’iniziativa referendaria rispetto al sentire collettivo. Tanto più che sui due quesiti più “politici” (decreto Severino e custodia cautelare), anche tra i pochi che sono andati ai seggi, una buona quota – oltre il 40% – lo ha fatto per votare “no”. Al di là delle migliori intenzioni di alcuni dei sostenitori dei referendum, è veramente arduo non cogliere profili di strumentalità in un’iniziativa che ha investito almeno parzialmente la materia di una delle riforme-chiave del Pnrr, su cui si sono impegnati Governo e Parlamento.
Tra i tanti motivi che hanno tenuto gli italiani lontano dalle urne, forse c’è anche il fastidio per la campagna elettorale permanente in cui siamo immersi da mesi, e che sembra avere come principali obiettivi il logoramento del Governo in carica e la conquista di posizioni tatticamente redditizie nella prospettiva delle prossime politiche, da cui ci separa meno di un anno. Che poi queste manovre siano o no nell’interesse del Paese, sembra quasi marginale. Non è casuale che anche nella tornata amministrativa la partecipazione abbia registrato un calo rilevante, superando di poco la metà degli elettori potenziali. Per un bilancio completo delle comunali su scala nazionale sarà necessario attendere l’esito dei ballottaggi, ma colpisce fin d’ora che gran parte dell’attenzione sia concentrata sugli assetti degli schieramenti. Ossia gli assetti interni per quanto riguarda il centrodestra, che ha una tradizione di alleanze elettorali – a ben vedere – più forte delle pur aspre rivalità tra i leader; e gli assetti complessivi sul versante del centrosinistra, dove il perimetro delle alleanze è ancora in via di definizione.