di Roberto Contu*
“Duc in altum, prendete il largo, fate della vostra vita un capolavoro”: parole splendide, nelle mente e nel cuore di tutti. Eppure, mai come oggi, a me pare che il non detto su questa generazione di ragazze e ragazzi sia piuttosto quello di un perplesso “ma dove andranno, cosa potranno? Vista la situazione, dubitiamo ce la faranno”.
Niente di nuovo sotto il sole. Da sempre, o perlomeno dalla prima grande rottura generazionale moderna operata negli anni Sessanta, il rapporto tra giovani e adulti è segnato dalla provocazione aspra, da un lato, e dalla mancanza di fiducia, dall’altro.
Noi che siamo stati ragazzi nei Settanta, negli Ottanta, nei Novanta, ora adulti, abbiamo vissuto entrambi i fuochi della controversia, ma quella di oggi sembra essere una frattura più ampia; e proprio per questo (io dico) fertile per un seme di futuro che attecchisca bene in virtù di un solco tanto profondo.
Un dato simbolico per entrare nel merito. Da quest’anno, nelle nostre aule il Novecento anagraficamente non esiste più: nel quinto anno ci sono i nati nel 2000, nel quarto anno i 2001 e via a scendere…
Il dato va ben oltre la suggestione. Cosa porta di nuovo la “Generazione zero”? Molto, moltissimo. Si tratta della prima generazione digitale, quella per cui la dicotomia oramai stantia online/offline è superata antropologicamente dalla dimensione dell’ onlife. Un educatore che oggi non comprendesse che la foto postata dal proprio adolescente non è solo un gioco, ma autentica estensione del sé, imprescindibile per la possibilità di relazione, sarebbe destinato al fallimento.
È la generazione delle nuove sintassi mentali, del linguaggio complesso e multiforme dei meme, delle nuove grammatiche comunicative delle emozioni, dei sentimenti e quindi delle identità. La generazione, infine e purtroppo, del sogno di un futuro che sconta la crisi del 2007, per cui il mantra classico delle nostre generazioni: “Studia, impegnati, e avrai un futuro degno” viene smascherato nella sua avvilente irrealtà già nei primi anni dell’adolescenza. E potremmo continuare a lungo.
Sull’altra sponda, come rispondiamo noi adulti all’urto del nuovo a volte ingovernabile a cui questi ragazzi ci costringono? Potremmo anche in questo caso squadernare analisi su analisi, ma per quanto mi riguarda rilevo sempre più un sentimento rimosso: la paura.
Penso ad esempio alla notevole attenzione posta (a suon di progetti e di polizia postale a scuola) su fenomeni deteriori come cyberbullismo e adescamenti in Rete, che certo esistono e vanno affrontati, ma che non esauriscono affatto la vera evidenza di un mondo adolescente che oggi abita in toto la Rete.
Un po’ come certi genitori di un tempo che non facevano uscire i figli per paura dei pericoli, si rischia spesso di profondere (giusti) sforzi per arginare i rischi del digitale, dimenticando però la normalità e l’evidenza della stragrande maggioranza dei ragazzi e delle ragazze che quel che mondo lo abiteranno comunque, anche ‘scappando dalla finestra’, senza per questo necessariamente incappare in vicoli bui.
Ma penso anche alla paura di una realtà che sembra non appartenerci più, e che ci pare di dover tamponare continuamente nella presunta emorragia alla sua identità. Penso infine alla voragine tra un certo tipo di narrazione apocalittica e catastrofica di una società che sta profondamente mutando (come fa dall’inizio dei tempi, peraltro) e la normale e prosaica quotidianità di luoghi come la scuola in cui questi processi si sostanziano realmente, nell’incontro tra le culture e le complessità, tra i volti e le relazioni, in fondo infischiandosene del loro racconto mediatico e politico.
Potremmo, anche in questo caso, continuare a lungo, ma mi preme tornare all’inizio: duc in altum. Da sempre, per poter prendere davvero il largo, i ragazzi hanno chiesto e sempre chiederanno agli adulti un terreno solido su cui puntare i piedi. La paura, tanto più se rimossa o mascherata di colpevole cinismo, è forse l’unico fango capace di impantanare e rendere vana quella spinta vitale.
Sarebbe irreale e anche ingiusto caricare solo sulle spalle delle famiglie la responsabilità di un passaggio così decisivo; sarebbe stupido pretendere solo dalle famiglie la capacità di conoscere, giudicare e perciò accompagnare questi figli attraverso le complessità di questo nostro mondo.
Ecco allora l’urgenza di riscoprire e benedire la funzione decisiva della scuola, dell’oratorio, dell’educatore in un tempo in cui – paradossalmente, anche su sponda amica – queste realtà seminali dell’educazione vengono delegittimate o viste come ostili. A volte i proverbi possono suonare retorici, eppure mai come in questo caso varrebbe la pena ribadire che “per educare un bambino ci vuole un intero villaggio”, il quale comprende la famiglia, ma tanto più la scuola, la parrocchia, gli educatori, e qualsiasi altra realtà dove si cammini ostinatamente con lo sguardo alto della speranza, che scuote dai piedi la polvere della paura.
*insegnante di scuola superiore a Perugia