di Daris Giancarlini
Perché è successo? E perché è successo qui, e adesso? Si suppone che queste due semplici domande se le stia ponendo in questi giorni il commissario del Partito democratico dell’Umbria, Walter Verini, nominato in questo ruolo dal nuovo segretario nazionale del partito, Nicola Zingaretti, dopo il deflagrare dell’inchiesta sui concorsi della sanità in Umbria.
Un’inchiesta definita di volta in volta dai commentatori come ‘bomba atomica’, ‘terremoto’, ‘tsunami’, ma che lo stesso Verini nella sua prima dichiarazione sulla vicenda ha derubricato a livello di semplice ‘scossa’, con l’intento, comprensibile, di suscitare una reazione nella “parte sana” (è sempre Verini a parlare) del partito.
È certo che il Pd umbro possa contare su una parte sana maggioritaria, ma il commissario mandato da Zingaretti dovrà trovare delle spiegazioni convincenti e delle motivazioni decisive per rassicurare iscritti e simpatizzanti in vista delle elezioni europee e amministrative del 26 maggio prossimo.
Perché è successo, e perché è successo qui e ora? Se lo chiede anche la base del Pd umbro, delusa e intristita dallo squarcio inferto dall’inchiesta alla tela costruita in questi decenni sul ‘buon governo’ della Sanità regionale. “L’Umbria non è una terra dove queste cose sono una prassi” ha notato ancora Verini: giusto, ma questa notazione casomai, per quello che è successo (stando alle carte), è piuttosto un’aggravante, non un elemento a discarico di chi dirige il partito erede di chi ha governato l’Umbria per l’intero dopoguerra.
Quello che è certo, tenendo conto di vicende analoghe accadute negli anni anche in altre parti d’Italia, è che quando interviene la magistratura su questioni che intersecano con la politica, c’è un pregresso di crisi politica a favorire questi esiti. Il Pd in Umbria, e in Italia, è in crisi evidente da qualche anno. Ha perso Terni e Perugia, inoltre alle regionali del 2015 il centrosinistra aveva vinto con un minimo scarto sul centrodestra. Le cronache politiche fanno risalire questa crisi principalmente alle divisioni interne allo stesso Pd, alle mai risolte diatribe verticistiche tra ex Dc-Margherita ed ex Pci-Pds.
Fu la cosiddetta ‘fusione fredda’, il peccato originale di una formazione politica che doveva raccogliere il lascito inclusivo dell’Ulivo, e che invece sembra aver conservato il peggio di Dc e Pci, senza trovare una sintesi ideologica e programmatica che potesse consolidarsi come cultura politica comune e inclusiva. Se manca una cultura, a latitare è anche una prospettiva, uno sguardo lungo sul futuro. “Il Pd – secondo il prof. Gianfranco Pasquino – si preoccupa di vincere le elezioni, non di convincere prima delle elezioni”.
Dopo l’avvio dell’inchiesta sulla sanità umbra, ha proposto un’analisi sul Pd anche Emanuele Macaluso, 95 anni, da sempre ‘coscienza critica’ della sinistra italiana. Secondo Macaluso, “il Pd non è un partito impegnato nelle lotte sociali e nelle battaglie politico-culturali che hanno costituito la fucina della formazione e dell’impegno dei militanti e dei dirigenti della sinistra.
Se un partito – è la convinzione di Macaluso – ha quadri dirigenti allenati solo alla gestione del potere locale, è inevitabile che si verifichino delle smagliature, dovute al fatto che in questo quadro bisogna costruire cordate elettorali e avere aderenti che aspirano comunque a essere favoriti nell’impiego e nella carriera”.
Fulminante, nella sua lucidità, l’analisi di Macaluso. Dovrebbe leggersela e mandarla a memoria, il commissario Verini, chiamato nei 40 giorni circa che precedono il voto europeo e amministrativo a risollevare il morale di una base Pd attonita e smarrita. Superando anche la paura, palpabile in ambiente Pd, che la Lega possa aprire in Umbria, dal 26 maggio in poi, una lunga fase di supremazia politica.