La vita cristiana è tensione, speranza, attesa, perciò ripetiamo ogni giorno nella preghiera del Padre nostro: “Venga il tuo regno!” (Mt 6,10). Il tempo dell’attesa resta imprecisato, nessuno sa quando e dove avverrà l’incontro definitivo con Dio; incombe sempre su di noi il sentimento dell’imminenza, come se la morte fosse dietro l’angolo.
Siamo alla fine dell’anno liturgico, e nella messa di questa domenica risuona alto l’annuncio del regno dei cieli, quello definitivo, che verrà con il ritorno di Cristo-Re nella sua gloria di risorto. Esso ha lo scopo di nutrire la nostra speranza e di inculcare l’urgenza dell’attesa per non farci sorprendere impreparati. Meravigliosa attenzione materna della Chiesa, che non cessa di metterci in guardia con insistenza, senza illusioni! Quello di Gesù è l’annuncio di un incontro dei figli con il Padre, dei fratelli con il fratello maggiore che è andato a preparare loro un posto.
Questo consente di superare l’ansia e lo spavento paralizzante della morte. Il giudizio resta sullo sfondo come ammonimento bonario per stimolarci a vivere con responsabilità e amore la vita che Dio ci dona. Sarà una sorpresa gioiosa per chi ha speso l’esistenza nell’amore di Dio e del prossimo.
L’attesa non deve distogliere nessuno dal presente storico, non consente evasioni dalla realtà, non consente a nessuno di vivere in una specie di sala d’attesa, sfogliando qualche rivista di attualità.
Il Vangelo di oggi presenta in maniera scenica il giudizio finale di Gesù, quello che gli antichi committenti e pittori amavano affrescare sulla parete di fondo delle chiese, come ammonimento a chi usciva dall’edificio sacro dopo aver partecipato alla liturgia. Era come dire che avrebbero avuto tutti un altro incontro più impegnativo con Cristo, prolungamento di quello appena vissuto in chiesa. Nulla meglio della scena del giudizio finale illustra l’idea di Cristo re dell’universo che oggi celebriamo. Il racconto, presente solo nel Vangelo di Matteo, è una specie di parabola; non intende cioè illustrare fotograficamente quello che accadrà. Molti esegeti parlano della “parabola delle pecore e delle capre”.
L’inizio riproduce ciò che avveniva alla sera negli ovili della Galilea: il pastore separava le pecore (pròbata) dalla capre (eriphòi) per mungerle e riporle in recinti diversi a passarvi la notte. Qui la separazione, tra le pecore bianche e le capre dal manto nero, ha un chiaro fine discriminatorio fra buoni e cattivi, al fine di assegnare loro un destino diverso. Quasi senza che ce ne accorgiamo, quel pastore si trasforma nel re-giudice. Gesù, durante il suo processo celebrato davanti al Sinedrio, aveva annunciato: “D’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo, seduto alla destra di Dio, venire sulle nubi del cielo” (Mt 26,64). Le due figure, quella del pastore e quella del re, si trovano spesso sovrapposte nella Bibbia e nella letteratura orientale, dove Dio o il re terreno hanno questa doppia fisionomia simbolica.
L’immagine del raduno del gregge caratterizza poi il tempo della salvezza finale. Gesù aveva detto: “Ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore” (Gv 10,16).
Un altro elemento simbolico è rappresentato dal dialogo del giudice, che presenta una semplificazione schematica dei capi d’imputazione, prima in positivo e poi in negativo. Sono esempi che non intendono esaurire gli impegni morali richiesti per un giudizio equo. Sono elencate le più urgenti opere di misericordia corporale, conosciute nella tradizione giudaica, e descrivono in modo plastico l’esigenza ineludibile dell’amore del prossimo. Siamo nel cuore stesso del Vangelo. Come in ogni parabola, Gesù intende illustrare solo un aspetto parziale, rappresentativo dell’agire e del volere di Dio. Nelle quattro parabole escatologiche che concludono i discorsi di Gesù nel Vangelo di Matteo, quella del maggiordomo (24,45-51) e delle ragazze che attendono lo sposo (25,1-13) mettono in evidenza la vigilanza dell’attesa; quella dei talenti (15,14-30) pone in risalto la capacità di intraprendenza e di impegno; la nostra di oggi presenta l’esercizio concreto della carità, il comandamento nuovo di Gesù (Gv 13,34s).
Al centro del racconto c’è il Figlio dell’uomo, Gesù risorto presentato con tutta la sua maestà e gloria. Coronato re per scherno dai soldati di Pilato, ora svela tutta la sua singolare regalità al cospetto del mondo che lo aveva rifiutato. Intorno a lui non c’è più la turba vociante dei nemici che lo reclamano crocifisso, ma la corte del cielo rappresentata dagli angeli. Davanti a lui ci sono ora tutte le genti da lui redente (Gv 12,32), raccolte per il giudizio definitivo. Lo spettacolo, in forma più dettagliata e suggestiva, è descritto, sempre con linguaggio figurato, dal libro dell’Apocalisse (20,11-13). Gli uomini posti alla destra sono definiti “benedetti del Padre”, l’equivalente di “beati”, persone conosciute e amate per il loro impegno di fede e di amore. Alla sinistra, luogo di valore inferiore, ci sono invece i “maledetti”. È un termine che si trova solo qui sulla labbra di Cristo e riecheggia la maledizione lanciata da Dio contro Caino, il fratricida (1 Gv 3,15). Essi richiamano la figura del ricco egoista della parabola del povero Lazzaro, e sono condannati, come quello, al “fuoco eterno”.
Si ha l’impressione che Gesù si trovi a disagio nel parlare di questi ultimi e nel descriverne il supplizio eterno, perciò la loro condanna è pronunciata in maniera affrettata e sintetica. Tuttavia la conclusione dei due momenti del processo è ripetuta con le stesse parole per rendere più chiaro il significato contrapposto: “Tutto quello che (non) avete fatto a uno solo di questi più piccoli, (non) l’avete fatto a me”. Quelli che qui Gesù chiama “i suoi fratelli più piccoli” sono tutti quei poveri e sventurati del mondo, bisognosi di aiuto e di conforto, descritti due volte nel corso del giudizio. Nessun re del mondo chiamerebbe fratelli gli ultimi del suo regno; solo Gesù – che ha provato povertà, disprezzo, dolore e persecuzione – poteva usare questo linguaggio familiare e sentirsi solidale con gli ultimi della terra. La parabola insegna che ogni cristiano deve sentirsi membro di questa famiglia di poveri, fratello attivo di tutti i bisognosi, per essere chiamato poi ‘benedetto del Padre mio’ nel giudizio finale del re dell’universo. Non ci sarà gioia più grande!