Volontariato. Il mio pessimismo ha dovuto ricredersi quando ho visto il consuntivo di una festa patronale. Mammamia, quanta gente ci lavora gratuitamente! Però, però… di mezzo c’è la tradizionale, robusta “magnata”, che i “volontari” non disdegnano: come fine o come mezzo? Poi invece quel volontariato vero, del quale lamentavo la latitanza, l’ho trovato alla periferia di Gubbio, al Coppiolo, sotto il mattatoio, nell’Aratorio familiare. Nel segno della solidarietà, con l’impegno gratuito di tanti volontari, giovani e soprattutto adulti, l’Aratorio da un grande orto (un ettaro di terra), concimato al naturale con letame e micro-organismi, terreno concesso dal Capitolo dei canonici della cattedrale, ricava primizie da vendere e regalare a chi ha bisogno. “Una missione che porta con sé, nel lavoro quotidiano, anche l’educazione dei figli, la riscoperta di certi buoni princìpi per le giovani generazioni, il ritorno alle origini dell’uomo e al valore della terra”. Bellissimo. Ma basta questo perché il vescovo Ceccobelli definisca l’Aratorio familiare “il vero santuario della carità per la diocesi di Gubbio”. E Capodarco? È solo la sagrestia del santuario? Nel 2004, la mattina dopo il suo ingresso in diocesi, il neo-vescovo Ceccobelli venne a farci visita. Poi tornò sempre puntualmente. Una volta all’anno. Ma allora non siamo nemmeno la sagrestia! Amabile lettore, permettimi di spiegarmi, nelle prossime abat jour – prima che (il 3 dicembre) don Luciano, il nuovo vescovo di Gubbio, si sia insediato in questa nostra diocesi, che sarà anche e soprattutto la sua – spiegarmi sul perché, se nascessi di nuovo, se di nuovo il Maestro mi volesse tra i suoi preti, sceglierei di vivere ancora e sempre nella Comunità di Capodarco.
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Nella seconda metà degli anni ’60 del secolo scorso i miei ragazzi del Movimento studenti eugubino e io eravamo in cerca di una qualche iniziativa ricca di significato alla quale dedicare una o più quindicine delle nostre vacanze. Uno di loro m’aveva procurato un numero recente del Corriere della sera dove, in quella terza pagina che allora era la pagina della cultura, un grande giornalista parlava a lungo dell’esperienza d’una settimana che aveva fatto in primavera a Capodarco di Fermo, con soggetti disabili gravi. Era Giuliano Zincone, fratello del direttore del “Corrierone” Vittorio Zincone. Di quell’esperienza Zincone era rimasto entusiasta, ne parlava in termini più spesso epici che elegiaci; ma concludeva che non sarebbe arrivata al Natale (in meneghino puro: “Mangia minga el Panatùn!”). 30 giugno 1970. Con la mia Citroen color cacca raggiungo Capodarco. M’affaccio e ricevo una mazzata da stordire un toro.