I santi che la Chiesa eleva agli onori dell’altare sono proposti come modelli di vita cristiana. La vicenda di questi fratelli e di queste sorelle diventa un segno di speranza e una traccia da seguire per poter giungere alla loro meta: la comunione con Dio. Chiaramente però riconoscere un modello dipende dalle convinzioni di chi lo cerca, dai valori, dalle idee, dalla comprensione dell’umano e del sociale; in estrema sintesi, i modelli, anche quelli di santità, vengono riconosciuti sempre dentro un orizzonte culturale e, nel caso dei santi, ecclesiale. Si riconosce un modello di santità e lo si propone ai credenti perché dentro una certa coscienza ecclesiale, in un dato periodo storico e in un contesto culturale, si riconosce la vita di qualcuno come esemplare.
Non significa certo che Dio ha agito solo in quelli che noi riusciamo a riconoscere, infatti la Chiesa ha sempre avuto la percezione di una santità diffusa che non trova una collocazione nel calendario liturgico eppure non è certo meno concreta. Questa è piuttosto l’iceberg la cui punta emergente sono le poche vite che riusciamo a riconoscere come esemplari e che riconosciamo proprio sulla base del contesto ecclesiale e culturale in cui ci troviamo.
Modelli di santità nella storia
Se scorriamo i modelli di santità lungo la storia troveremo anzitutto gli apostoli e gli evangelisti, per la singolare vicinanza all’evento Cristo, quindi i martiri, senza grandi distinzioni sul ruolo ecclesiale o sullo stato di vita da loro vissuti, perché il martirio diventa la somma testimonianza che finisce per assorbire tutti gli altri aspetti in cui la fede è stata vissuta dal testimone ucciso per la fede. Quindi, terminata l’epoca in cui il martirio era tanto diffuso da divenire un rischio connaturale al diventare credenti, i modelli di santità riconosciuti e proposti dalla chiesa sono stati per lo più vescovi, presbiteri e monaci/che.
Molto probabilmente questo è dovuto, oltre alla reale santità delle persone operata dallo Spirito, al fatto che la Chiesa riconoscesse come opera di Dio, meritevole di essere portata come esempio ad altri, il servizio dei Pastori e la vita ascetica dei monaci/che, mentre non riusciva a cogliere nessun eroismo o nessuna straordinaria testimonianza – salvo rare salutari eccezioni – nel servizio reso nella politica, nel lavoro, nella vita matrimoniale.
Addirittura le sante femmine (diversamente da quanto accade per gli uomini) sono state “catalogate” sulla base della loro vita sessuale, si è ritenuto cioè che la verginità – solo per le donne, si badi – costituisse un motivo di particolare merito, tanto da celebrare le donne vergini con un formulario liturgico specifico. Possono essere state dottori, guerriere, ascetiche, martiri della carità, ma ciò che contava veramente, per comprenderne la santità, è se avessero avuto o meno rapporti sessuali.
Perché? Perché per un lungo periodo di storia la condizione femminile è stata letta alla luce della sessualità: una donna era compresa solo come vergine o sposa, e nel primo caso aveva maggior merito perché la sessualità era vista sempre come un cedimento rispetto alla perfezione, un difetto tollerabile, ma pur sempre un difetto di santità.
Matrimonio luogo di santità
Oggi la coscienza ecclesiale è cambiata. Abbiamo compreso la vita matrimoniale come un luogo di santità, la sessualità e la procreazione come luoghi di donazione eroica, e la vita laicale come una condizione in cui il credente può donare tutto se stesso in una sequela radicale del Signore. Ed ecco perché negli ultimi decenni tanti laici e tanti coniugi sono stati indicati come modello di vita cristiana. Sempre ci sono stati santi laici e coniugati, ma ce ne riusciamo ad accorgere solo adesso, perché le condizioni culturali e la sensibilità ecclesiale hanno permesso un affinamento del nostro sguardo.
E così siamo arrivati a riconoscere in Vittorio Trancanelli non solo una gran brava persona, ma un dono per la Chiesa, perché altri imparino che cosa vuol dire amare Dio e amare il prossimo.
Vittorio era sposato con Lia e aveva figli (naturali e non). Questo ci dice che la santità non è una questione che si vive a tu per tu con Dio, ma in un intreccio di relazioni intime, quotidiane, invasive, viscerali. Non si è santi – come per tanto tempo si è predicato – perché liberi da tutti per amare Dio, ma perché, legati in ogni modo possibile da vincoli di amore, ci si trova immersi nella stessa vita del Dio Amore, mistero di comunione.
Vittorio, testimone di vita cristiana
Ora siamo capaci di accorgerci di questo e infatti chiediamo a Lia di parlare di Vittorio, perché sappiamo che il segreto della santità di lui, l’intimità da lui vissuta con Dio, non è estranea all’interiorità di lei, ma in qualche maniera la invade, fino a che forse lei stessa ne sapeva più di suo marito.
Vittorio era un professionista. Un medico. Faceva bene il suo lavoro perché studiava e perché aveva a cuore le persone che incontrava. Competenza e passione in un continuo dono di sé che lo consacrava al servizio dei fratelli. Gaudium et spes 38 dice, parlando dei laici, che Dio li chiama “a consacrarsi al servizio terreno degli uomini, così da preparare attraverso tale loro ministero quasi la materia per il regno dei cieli”. Donare se stessi perché agli altri vivano è la vocazione cristiana, la stessa di Cristo, animati dallo stesso Spirito Amore che ha animato lui, poco importa in quali condizioni questo accada. Ora sappiamo bene che può essere vero per un medico, per un maestro, per una senatrice, per un’operaia, come per un religioso o una mistica.
Per Vittorio il dono di sé ha preso la forma della chirurgia, e così ha preparato la materia del Regno curando i malati. Non solo. Ha fatto tutto questo da laico, cioè nelle condizioni ordinarie di vita di tutti: vestiva come i suoi colleghi, lavorava in mezzo a loro, aveva una casa come tutti, moglie e figli come tanti. In queste condizioni, mescolato agli altri come il sale al cibo o il lievito alla pasta, ha testimoniato il Vangelo là dove nessun presbitero sarebbe potuto entrare, ha portato il Vangelo là dove non poteva arrivare se non tramite lui.
Così Lumen gentium 33: “I laici sono soprattutto chiamati a rendere presente e operosa la Chiesa in quei luoghi e in quelle circostanze in cui essa non può diventare sale della terra se non per loro mezzo. Così ogni laico, in virtù dei doni che gli sono stati fatti, è testimone e insieme vivo strumento della stessa missione della Chiesa ‘secondo la misura del dono del Cristo’ (Ef 4,7)”. I laici cioè sono semplicemente Chiesa, e portano il Vangelo là dove il loro stato di vita diventa una risorsa, perché li vede vicini a tutti gli altri, che ancora non conoscono Cristo.
Questo è stato Vittorio: molti di quelli che l’hanno incontrato hanno potuto riconoscere in lui l’amore del Padre anche senza mettere piede in chiesa o accostarsi ai sacramenti. E così la Chiesa, in lui, è arrivata dove non sarebbe potuta mai arrivare: fin dentro la sala operatoria e nell’intimità di una famiglia. Solo un laico poteva farlo. Un laico totalmente consegnato a Cristo.