Caro don Francesco, spesso sento parlare di “riforma della riforma” della liturgia, ma cosa significa? Si vuole cambiare la riforma liturgica del Concilio Vaticano II?
R. V. Perugia
Cara lettrice, sì, spesso sento e leggo anch’io questo modo di dire in campo liturgico. E troppo spesso, purtroppo, lo sento come slogan di una linea di pensiero che vorrebbe riportare il vetus ordo, la prassi pre-conciliare, come modalità ordinaria di celebrazione di nuovo oggi. Rispetto a ciò, mi pongo la domanda: “È necessaria una riforma della riforma auspicata dal Concilio Vaticano II e iniziata da Paolo VI?”. Certo che no!
Mi spiego. L’espressione “riformare la riforma”, a mio giudizio, porta con sé un errore: come è possibile riformare una riforma che ancora non è chiusa? Infatti non possiamo pensare – cosa che taluni pensano – che la riforma voluta dall’ultimo Concilio si sia conclusa, perché non basta sostituire i libri liturgici o cambiare alcune prassi per dire che abbiamo attuato in toto il dettato conciliare. Si può quindi riformare qualcosa che non si è ancora concluso? Per recepire tutto ciò che il Concilio ha espresso, tutta la sua portata teologica e pastorale, non bastano di certo 50 anni, come non bastano per attuare in pieno la riforma liturgica. Questo ci viene dimostrato dal fatto che i Pontefici, da Paolo VI fino ai giorni nostri, a piccole dosi, con piccoli cambiamenti, sono intervenuti nella linea riformatrice tracciata dal Vaticano II: pensiamo alla pubblicazioni di nuove edizioni dei libri liturgici, ai motu proprio che riguardano la liturgia… e alcuni vorrebbero applicare questa riforma della riforma. Infatti sembra quasi che si voglia ibridare il novus ordo, il nuovo ordinamento celebrativo, riproponendo modalità rituali dalle quali in realtà in passato è scaturito appunto il desiderio di riforma! Sarebbe compiere un passo falso, il ritornare indietro per una strada da cui i Padri conciliari si sono voluti discostare per ragioni valide ancora oggi.