di Angelo M. Fanucci
Più passa il tempo, più si sente il bisogno di una riforma liturgica a norma del Concilio Vaticano II. Il bisogno di incrementare il ritmo di qualcosa che già accade: una lunga pioggia leggera ma insistente che, a onta di tutte le resistenze, sta penetrando nel terreno delle esauste comunità cristiane della vecchia Europa. Anche se penetra molto più lentamente di quanto accada in quelle che fino a ieri, in Africa o Sudamerica, chiamavamo “terre di missione”.
Al di là del rinnovamento di singole locuzioni, si sente il bisogno di ripensare a fondo la liturgia della messa: il “non ci indurre in tentazione” è già andato in soffitta. Ma quando cesserà di essere una bugia quel “prendete e bevetene tutti” dopo il quale tutti mangiano e uno solo beve?
A me sta particolarmente indigesto quell’“Agnello di Dio che togli i peccati del mondo”. “Togli”… cos’è stata, un’amnistia? Tutt’altro! Tòllere in latino indica anche e prima di ogni altra cosa il gesto dello schiavo che nel porto di Ripetta sale sulla triremi appena arrivata dall’Africa e si carica sulle spalle una balla di grano da due quintali Quel “togli i peccati del mondo” andrebbe sostituito con “ti fai carico del peccato del mondo”, aggiungendo magari “e lo perdoni”.
Su questo piano potremmo continuare a lungo, soprattutto se volessimo radiografare le parti mobili della messa e denunciarne i limiti in fatto di sentire cum Ecclesia , con la Chiesa del Concilio.
Piccoli esempi di una riforma necessaria, ma insufficiente. Riforma è anche questo, ma non solo questo. Riforma in senso pieno dovrebbe consistere nel ripensare da vari punti di vista l’impostazione globale del rito sacro.
Due piccoli esempi. Primo. Era una mensa, è diventato un altare. Occorrerebbe, forse, ridisegnare a fondo l’interno delle nostre chiese, liquidare gli arredi inutili, centrare tutto sulla mensa alla quale si mangia insieme.
Secondo: chi presiede doveva farlo sollecitando il contributo di tutti, ma non è successo. È prevalsa la prassi ispirata all’anticristiana, drammatica imprecisione che s’è insinuata nella definizione stessa della Chiesa: la distinzione fra “Chiesa docente”, che insegna, e “Chiesa discente”, che impara. Drammatica. C’è stato preannunciato che un giorno saremmo tutti assurti a profeti, e che i nostri figli e le nostre figlie avrebbero profetato. Nella misura in cui appartiene alla Chiesa discente, per chiunque che non sia il celebrante – ancorché soprannominato “il presidente” quel momento non arriverà mai.
Ripensare globalmente la fisionomia essenziale del rito. Un passettino per volta, ma avendo ben chiaro dove si vuole arrivare. È quello che sta facendo, a passettini piccoli ma continui, Papa Francesco, suscitando come sempre malumore e critiche aspre in chi non riesce a seguirlo.