Riformare la nostra Chiesa sullo stampo del Concilio? Certo che bisogna farlo, e non lasciarlo fare agli altri, perché dentro la Chiesa siamo tutti soggetti e nessuno può ridursi a suddito. Giuliano Minelli, nella nostra abborracciata lectio divina settimanale che “Il Gibbo” tiene ininterrottamente dal 2007, lo ripete una volta sì e l’altra pure: soggetti, non sudditi! Protagonisti, non esecutori!
Giusto. Ma nel frattempo le grandi mete che giustamente additiamo alla nostra Chiesa possiamo farle concretamente nostre, nel nostro privato, anche solo in parte, anche rischiando di fare la figura degli originaloni. Possiamo promuovere il progresso della Chiesa senza dimenticarsi il nostro.
Chi ci impedisce, a noi vecchietti, di destinare una buona fetta di quel gruzzolo consistente, che la nostra pensione ci ha permesso di accantonare, a una famiglia che non arriva a fine mese? Soprattutto quando la pensione non ce la siamo meritata; come il sottoscritto che ne usufruisce dal 1984 (35 anni!), dal tempo in cui nostri Governi facevano le cicale (mentre i Governi tedeschi facevano le formiche).
Ancora fresco è il lutto per la morte del mio Giuliano Panfili, un eugubino che ha fatto fortuna a Milano e che, quando ha ristrutturato la sua casa a Gubbio, ha pensato bene, visto che aveva deciso di dotarla di un ascensore, di farlo salire, l’ascensore, fino in soffitta, che ha risistemato in vista dell’accoglienza di una famigliola in difficoltà. Quante altre soffitte, anche fatti salvi i diritti delle cianfrusaglie che ab illo tempore le hanno occupate, potrebbero cambiare destinazione?
Certo, ci pesa come uno gnocco sul gozzo il fatto della tante, tantissime case canoniche disabitate. E non solo per i troppi fratelli di colore, figli di Dio come noi, che dormono all’aperto, sotto un cartone, ma anche perché la presenza fisica del parroco nella sua parrocchia, giorno e notte, è sempre stata un pilastro della fraterna comunità cristiana. Trovarne l’utilizzo giusto non è facile.
Certo. Ma la ricerca di nuove soluzioni pratiche rischia di essere un alibi buono per mettere la sordina a quella che la tradizione cristiana ha definito “l’unica tristezza giustificata in un discepolo di Gesù, la tristezza di non essere santi”. Camminare sulla via della contestazione delle vecchie strutture e proporne delle nuove come apice del nostro progetto di vita, che invece dovrebbe concentrarsi altrove: nella crescita costante dell’amore per Dio e per il prossimo, due facce della stessa medaglia.
Farsi santi là dove si vive. Santa Teresa di Gesù Bambino, una volta entrata nel Carmelo di Lisieux sulla scia delle sue cinque sorelle maggiori che l’avevano preceduta in quella scelta, volle per se stessa una missione utopica quant’altre mai: “Io nella Chiesa voglio essere il cuore”.
Ma la figlia minore del notaio di Lisieux, che le aveva dato un’educazione finissima, dovette vivere a stretto contatto di gomito con una suora di provenienza contadina che la metteva a dura prova. E allora?