Il Papa in carcere? Sì, mercoledì scorso, 23 ottobre, è come se Papa Francesco fosse entrato in carcere – o meglio, in ognuna delle oltre 200 carceri sparse sul territorio del nostro Paese. “Dite ai carcerati che il Papa prega per loro… Dite che Dio abita anche nelle loro celle”. Eravamo 150 cappellani, provenienti da ogni parte d’Italia, a Roma per il nostro Convegno nazionale. Erano passati 15 anni dal convegno precedente, anche se rappresentanti di tutte le regioni, in genere due volte l’anno, ci incontriamo con il responsabile generale (ispettore, si chiama) per riflettere e offrire indicazioni al lavoro di ognuno di noi. Il Papa ci ha aperto il suo cuore, come è solito fare, e ci ha confidato alcuni sentimenti ed esperienze degli incontri che ha potuto avere con questi uomini, e donne, e anche ragazzi, prima a Buenos Aires e poi in Italia (ancora solo nel carcere minorile di Casal del Marmo, Roma). Chi vede i carcerati solo attraverso la lente – deformata! – delle notizie di cronaca nera, non riesce ad avvicinarsi al mistero della loro vita, al mistero di ogni vita. La cronaca, per forza di cose, riporta la fotografia solamente esteriore e superficiale dei protagonisti.
Ma il “cuore” delle persone è ben al di là del racconto dei fatti… Il Papa ha confidato che, quando andava a parlare con qualcuno che aveva commesso un delitto, alla fine dell’incontro aveva come una specie di visione: se anche lui si fosse trovato nelle stesse situazioni (di abbandono, di solitudine, di disperazione, di angoscia) di quelle persone, chissà se avrebbe avuto la stessa sorte? Perché loro sono lì, e noi invece siamo qui?Una domanda, questa, che ogni cappellano, penso, si pone quando entra nel “recinto” – lì dove i rumori della cronaca, e l’urlo dei titoli dei giornali, svaniscono, e resta la persona con il suo volto che, visto da vicino, è così diverso dalle foto di prima pagina! Guardare le persone negli occhi – a volte persi, spenti, a volte avidi di luce… – ti dà la sensazione di entrare in uno spazio “sacro”, che non puoi attraversare senza aver tolto i calzari (un po’ come Mosè davanti al roveto ardente). Lo so che possono sembrare parole di circostanza, retoriche e anche fastidiose per certe orecchie: ma noi che le incontriamo tutti i giorni, sentiamo che questo è vero… Ed è anche l’unico modo di entrare in relazione vera (“comunione”, diciamo da cristiani) con il mistero della loro vita. Ce lo ha detto, nel momento della adorazione, anche mons. Bregantini, che all’inizio del suo ministero da prete è stato cappellano nel carcere di Palmi, in Calabria – dove poi ha impegnato la sua vita da Vescovo per liberare gli uomini dalle grinfie delle mafie -: si tratta di assomigliare a Ruth (protagonista del libro omonimo della Bibbia), che è entrata nel popolo che non era suo, condividendo poi tutto… Se noi cappellani, ha sottolineato Bregantini, non “entriamo” nel popolo dei carcerati, saremo degli impiegati, non i pastori inviati dal Pastore ad assorbire l’odore – a volte sgradevole! – delle pecore.
Nei tre giorni del convegno abbiamo potuto riflettere ancora, e celebrare con altri vescovi e anche con il card. Bagnasco, attuale presidente dei Vescovi italiani (Cei). Ma l’emozione più profonda l’abbiamo vissuta alla testimonianza di due donne, ambedue vedove perché alcuni assassini hanno ucciso i loro mariti. La cronaca del loro dramma è apparsa viva davanti a noi nel dolore del loro racconto, nella emozione della voce, nelle lacrime ancora lì, sulla soglia degli occhi, come quel giorno (del 1980 per l’una, del 2011 per l’altra). Erano un carabiniere e un poliziotto, che mentre esercitavano il loro lavoro, sono stati uccisi in maniera crudele e gratuita… Si può perdonare chi ti ha ucciso un marito – o un figlio, o un genitore? No, non è possibile – con le nostre povere forze. Ma Claudia e Lina hanno testimoniato che, guardando al Crocifisso, magari dopo mesi e anni di stordimento e di preghiera, hanno sentito nascere dentro di loro questa dolcezza e questa pace. E hanno sentito di poter incontrare gli assassini dei loro mariti, e hanno vissuto il miracolo di un abbraccio che non veniva da loro, ma era il prolungamento di quello che Gesù ha dato al ladrone pentito. Gli studiosi la chiamano “giustizia riconciliativa”; noi la possiamo chiamare meraviglia dell’amore che nasce da Dio. Un convegno per riempire il nostro cuore di cappellani di tante emozioni. Con la gioia di essere anche noi, umilmente, a operare in un settore di quell’“ospedale da campo” che, come dice Papa Francesco, è – deve essere! – la Chiesa.