Dopo i primi dati sul Reddito di cittadinanza (vedi La Voce 17/5/19), arrivano le prime valutazioni. Mi riferisco a una voce autorevole,Cristiano Gori, noto studioso di welfare e portavoce dell’Alleanza contro la povertà.
Il quale, in primo luogo, nota la rilevanza del segnale di marcata, ulteriore attenzione, dopo l’avvio del Rei (Reddito di inclusione), dato dal Rdc al problema della povertà grazie anche al forte impegno finanziario (Welfare oggi, n. 2/2019, pp. 41-45). È un segno incisivo di importanza politica attribuita alla questione della povertà, che peraltro ho l’impressione non sia ancora accolta in pieno da una parte dell’opinione pubblica, che fa fatica a comprenderne l’attuale natura strutturale, di fenomeno cioè legato alle caratteristiche del modello di funzionamento dell’economia capitalistica.
E non ha chiara la stretta connessione, su cui torneremo più avanti, tra le modalità di rilancio dell’economia e dell’occupazione, e quelle di un contrasto efficace alla povertà e all’esclusione sociale.
Il problema
Dopo aver ricordato le criticità principali del Rdc, già rilevate da molti e riprese anche ne La Voce del 17/5 (possibile disincentivo all’offerta di lavoro, posizione di svantaggio per i nuclei più numerosi e con minori a carico, per i beneficiari abitanti al Nord e per gli stranieri in generale), si può sottolineare con Gori il problema centrale.
Quello cioè collegato ai due modi di intendere il Rdc, secondo l’obiettivo da questo perseguito: se il Rdc sia volto basicamente ad assicurare – come appariva inizialmente – l’inclusione lavorativa da parte dei Centri per l’impiego, lasciando ai margini i percorsi di inclusione sociale di responsabilità dei Comuni; o se invece, come si è profilato dal secondo semestre 2018 in poi, venga assegnato un ruolo paritario ai percorsi di inclusione lavorativa e a quelli di inclusione sociale, così attribuendo una funzione di rilievo ai Comuni, secondo le modalità già previste per il Rei.
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Pierluigi Grasselli