Che Papa Giovanni sia stato “buono” lo dice innanzitutto la bonomia del suo tratto e dei suoi rapporti con tutti, sempre sorridente, pronto a vedere il lato migliore di persone e di avvenimenti, senza furbizie ma anche senza ingenuità. Fu chiamato a succedere al grande Papa Pacelli, Pio XII, all’apparenza inflessibile e rigoroso, il Papa degli anni terribili della guerra e di violenze inaudite. È in questo scenario che Dio fece piovere il Suo segno di misericordia donando non solo alla Chiesa ma all’umanità intera un Papa mite e buono, che dice e fa con semplicità cose grandiose, a cominciare dalla ricercata pace sociale e politica. Tale si rivelò fin da subito Papa Giovanni, assumendo a ragione proprio quel nome, usato ben 22 volte dai predecessori e – se si vuole – piuttosto logoro. Il nuovo “inquilino” lo fece però rivivere in pienezza di significato, riproponendo nei comportamenti l’apostolo prediletto da Gesù, quello che, come il Maestro, diceva cose che sapevano di amore.
Già nella sua prima scelta, Papa Giovanni, figlio e fratello di contadini d’una terra italiana che sa coniugare bene lavoro e serietà di vita con l’amore di Dio, fece capire di che stoffa fosse fatta la sua personalità. Per muoversi a Venezia, sua prima diocesi, usava inevitabilmente barche e motoscafi; ma per visitare luoghi significativi della sua Chiesa, italiana e universale, scelse il treno, fosse pure bianco come la sua veste di Pastore. E in treno, atteso a ogni fermata da un subisso di gente plaudente, fece il suo primo viaggio in Umbria, ad Assisi, il 4 ottobre 1962, per rendere omaggio al Patrono d’Italia e al più santo degli italiani, Francesco d’Assisi, e affidargli la protezione del Concilio. Era la prima volta che il Papa usciva dalla “prigione dorata” del Vaticano per tuffarsi familiarmente tra la gente, prigioniero solo del suo amore.
Dopo quel viaggio, il rapporto tra Papa e popolo italiano non è stato più lo stesso: è nata una confidenza e una immediatezza che è andata sempre più crescendo, per poi a rinnovarsi con Papa Francesco.
Papa “di transizione”
Quando Angelo Giuseppe Roncalli fu eletto Papa, tutti dissero che sarebbe stato un Papa di transizione perché era anziano. Lui stesso ne era convinto e lo scrisse nel suo diario (il “giornale dell’anima” cominciato a scrivere a 14 anni), dicendo che era stato scelto come Papa di “provvisoria transizione”. Ma in quella “provvisoria transizione” fece a tempo a fare parecchie cose e a provocare un ribaltone quasi incredibile con il Concilio Vaticano II, da lui promosso nel 1962 e condotto a termine dal suo successore Paolo VI nel 1965: quattro anni di riflessioni e di decisioni dei Vescovi di tutto il mondo, che dettero a santa Madre Chiesa un volto del tutto nuovo con l’avvio d’una pastorale evangelizzatrice, missionaria, integrata.
Scriveva da nunzio apostolico, nel suo Giornale dell’anima (paragrafo 824):”Il mio temperamento e l’educazione ricevuta mi aiutano nell’esercizio dell’amabilità con tutti, della indulgenza, del garbo, della pazienza. Non recederò da questa vita: san Francesco di Sales è il mio grande maestro. Oh!, lo rassomigliassi davvero e in tutto!… Io lascio a tutti la sovrabbondanza della furberia e della cosiddetta destrezza diplomatica, e continuo ad accontentarmi della mia bonomia e semplicità di sentimenti, di parola, di tutto. Le somme, infine, tornano sempre a vantaggio di chi resta fedele alla dottrina e agli esempi del Signore!”. Questi erano i sentimenti del card. Angelo Giuseppe Roncalli, e questi furono i comportamenti di Giovanni XXIII, che oggi proclamiamo gioiosamente santo per solenne definizione di Papa Francesco, che molto gli assomiglia.
La “Mater et Magistra”
Nel suo prolungato servizio di nunziatura ebbe sempre cura della verità e della carità, nel linguaggio e nei gesti, dall’aiuto agli ebrei ai soccorsi per gli ortodossi, a Sofia in Bulgaria come a Istanbul in Turchia, o nella Parigi del generale De Gaulle, il quale non voleva persone compromesse con il regime di Pétain, e per questo rifiutò malamente il nunzio Valerio Valeri. Anche la Chiesa cattolica aveva i suoi problemi disciplinari e dottrinali, muovendosi tra i postumi del dopoguerra e le violenze del mondo comunista, con l’urgenza ormai improrogabile di una nuova evangelizzazione.
Papa Giovanni, turbato dalle rovine fisiche, morali, sociali prodotte dall’ingiustizia, che faceva da moltiplicatore delle rovine non ancora recuperate del lungo dopoguerra, cogliendo l’occasione del 70° anniversario della Rerum novarum di Leone XIII, offrì il 20 maggio 1961 agli operatori pastorali il supporto d’un rilancio aggiornato della dottrina sociale cristiana con l’enciclica Mater et Magistra “sui recenti sviluppi della questione sociale”, ribadendo che “la dottrina sociale cristiana è parte integrante della concezione cristiana della vita” (n. 206), particolarmente necessaria in questa nostra epoca, “percorsa da errori radicali, straziata e sconvolta da disordini profondi” (n. 238) che hanno provocato notevoli squilibri. L’enciclica, com’è noto, suscitò vasta eco nella stampa mondiale. Scrisse il quotidiano francese Le Monde: “È rivolta verso l’azione e l’attualità. È adatta all’epoca, conforme all’esigenza delle giovani generazioni, che non vogliono discorsi accademici e non apprezzano le astrazioni dottrinali”. L’enciclica riscosse favorevoli consensi anche nell’opinione pubblica dei Paesi in via di sviluppo, in particolare India e Paesi arabi.
Il Concilio
Venne finalmente l’ora del nuovo Concilio, dai più non creduto possibile, da molti temuto, dai “profeti” atteso come segno di un nuovo impulso per l’evangelizzazione. Papa Giovanni stesso ne dette l’annuncio con il mirabile radiomessaggio dell’11 settembre 1962 ai fedeli di tutto il mondo. Lo qualificò subito come “una primavera della Chiesa”, paragonandolo alla valenza liturgica del Cero pasquale, che è lumen Christi, lumen ecclesiae, lumen gentium: una “vera letizia per la Chiesa universale, Chiesa di tutti, particolarmente Chiesa dei poveri”.
All’annuncio seguì la solenne apertura del Concilio l’11 ottobre 1962, con un discorso particolarmente energico per “dissentire dai profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo”. La Chiesa, invece, “guarda con realismo al presente”, e anzi “non ha assistito indifferente al mirabile progresso delle scoperte dell’umano ingegno, e non ha lasciato mancare la giusta estimazione”. In ogni caso, dinanzi ai tanti errori che si fanno, la Chiesa “preferisce oggi la medicina della misericordia”.
La gente di Roma corse ad ascoltare e ad applaudire il Papa in piazza San Pietro, e ad essa egli parlò con giovialità “a braccio”, ammirando la bella luna che splendeva sulla città, quasi a mostrare la gioia anche del Cielo. E terminò quel suo saluto con la celebre “carezza” da portare a tutti i bambini.
La “Pacem in terris”
Altro fatto da ricordare si ebbe con la pubblicazione dell’altra sua mirabile enciclica, Pacem in terris, l’11 aprile 1963, che fu il suo testamento sociale e religioso. Fu definita come la “Nona Sinfonia della pace”, paragonando alle cinque parti dell’opera di Beethoven (i quattro movimenti più il coro finale) i cinque temi portanti dell’enciclica: la pace universale fondata sui diritti e i doveri della persona umana; lo Stato di diritto come garanzia di pace all’interno d’ogni comunità politica; una pace duratura basata sui quattro pilastri della verità, della giustizia, della solidarietà, della libertà; una garanzia di vera pace in un efficace governo mondiale della grande famiglia umana; un dialogo sincero e fecondo tra tutti come radice e salvaguardia della pace, distinguendo sempre tra errore ed errante, e facendo leva su ciò che unisce, non su ciò che divide.
Ricordiamo tutti il tragico contesto in cui l’enciclica nacque: era in atto una vera guerra fredda, cioè la crisi per i missili russi a Cuba. Nel marzo 1963 Papa Giovanni aveva concesso un’udienza ad A. Ajubej, genero di Kruschëv, che valse anche ad ammorbidire i rapporti tra Chiesa cattolica perseguitata e dittatura comunista (quanti credenti e quanti sacerdoti e vescovi, martiri dell’età moderna, languivano nelle carceri della Russia e dei Paesi satelliti!). Questo fatto creò le premesse per un forte rilancio del tema della pace, parlando sia dei diritti che dei doveri delle singole persone, e delle comunità politiche anche a livello mondiale, secondo il principio di sussidiarietà. In quel contesto Giovanni XXIII ebbe parole di compiacimento anche per l’Organizzazione delle Nazioni Unite e la Dichiarazione universale dei diritti umani (del 10 dicembre 1948).
L’eredità spirituale
Era ormai vicina la conclusione della sua vita terrena. Il Papa di transizione, che aveva 82 anni, fu aggredito da un tumore maligno che provocò una lunga agonia, vissuta momento per momento dalla gente che seguiva direttamente l’evolversi della situazione in piazza San Pietro attraverso i mass media. Il “Papa buono” morì il 3 giugno 1963 con grande rimpianto di tutti, credenti e non credenti, cattolici e di altre confessioni religiose.
Aveva scritto nel suo Giornale dell’anima: “La senescenza, che è pure grande dono del Signore, deve essere per me motivo di silenziosa gioia interiore e di quotidiano abbandono nel Signore stesso, al quale mi tengo rivolto come un bambino verso le braccia aperte del padre. La mia umile e ormai lunga vita si è sviluppata come un gomitolo nel segno della semplicità e della purezza. Nulla mi costa il riconoscere e il ripetere che io sono e non valgo un bel niente! Il Signore mi ha fatto nascere da povera gente e ha pensato a tutto: io l’ho lasciato fare. Da giovane sacerdote mi ha colpito l’oboedientia et pax del padre Cesare Baronio, con la testa chinata al bacio sul piede della statua di san Pietro. E ho lasciato fare, e mi sono lasciato condurre, in perfetta conformità alle disposizioni della Provvidenza” (par. 897-898).
Ora per volontà di Papa Francesco sarà proclamato santo insieme a Giovanni Paolo II: due fiaccole d’amore nell’attuale “inequità”, come la chiama Papa Francesco, qualificandola come “la radice dei mali sociali” (Evangelii gaudium, n. 202). E anzi, “finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, come l’ha chiamata anche Papa Benedetto XVI, non si risolveranno i problemi del mondo, e in definitiva non si risolverà nessun problema”.