Il tema delle letture si può sintetizzare come un invito alla responsabilità, allo zelo. La prima lettura descrive una donna che “teme Dio”, attiva verso la propria famiglia, il lavoro, generosa verso i poveri. La seconda lettura è un invito ai “figli della luce” alla vigilanza, a non confidare nelle false sicurezze.
Il Vangelo narra la famosa parabola dei talenti: chi non è attivo, chi è “prudente”, viene riprovato, condannato. Il libro dei Proverbi, pur nella sua sobrietà, ci presenta un modello di vita pressoché perfetto: fare finalizzato ai bisogni degli altri. Modello ribadito nelle altre due letture: vigilanza, sobrietà, intraprendenza sono gli aspetti che vengono domandati. San Paolo collega l’invito-richiesta al nostro essere illuminati da Cristo che ci dà forza ma anche responsabilità.
Il brano evangelico per la sua perentorietà ricorda un brano dell’Apocalisse (3,16) “Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca”. Questi testi nel loro insieme evocano il comandamento evangelico riportata da Matteo (5,48): “Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”. Questa parola non si presta a equivoci o interpretazioni “rassicuranti”. Nella Bibbia, il volto di Dio è essenzialmente amore, misericordia, perdono, ma questo non è incompatibile o in contraddizione con quanto sopra ricordato. È quindi un invito forte, esigente. Esistono numerosi esempi di “zelo” per il vangelo nella Chiesa in tutti i tempi. L’invito a perseguire la perfezione, per molti, non è un miraggio ma una scelta di vita concreta; la Parola è praticabile.
Questo tipo di linguaggio, questi contenuti non sono però molto in sintonia con il clima che si respira nella società attuale, e anche nelle comunità ecclesiali. Un malinteso senso di “bontà” ci spinge a volte all’indulgenza verso comportamenti di deresponsabilità, di incompetenza, di indolenza, a volte anche di “furbizia”. Anche nell’ambito familiare spesso prevale un atteggiamento di protezione e di chiusura (ad es., si tendono a rifiutare le critiche ai nostri figli fatte dagli insegnanti); si tendono a ridurre i propri orizzonti e interessi a gruppi ristretti, a volte animati soltanto da vantaggi reciproci; è più frequente il reclamo dei diritti piuttosto che la sottolineatura dei doveri. L’elenco potrebbe essere lungo; quanto detto sono solo esemplificazioni.
Siamo tutti più o meno coinvolti in questa tendenza, probabilmente una della cause-effetto della crisi che stiamo attraversando. A nostro avviso, anche nell’ambito ecclesiale a volte si tende a confondere, sovrapporre, l’amore, la misericordia, la consolazione con un atteggiamento di “giustificazione”, di sottovalutazione dei nostri impegni e responsabilità. È paradigmatico a questo proposito il modo in cui l’insegnamento del nostro Papa viene percepito: capita molto spesso di sentire sottolineati gli aspetti del suo insegnamento che si riferiscono alla misericordia, all’amore, alla comprensione, mentre i richiami – a volte molto forti – al nostro impegno di cristiani, alla coerenza dei comportamenti, alle vie faticose che ci vengono indicate non hanno la stessa risonanza.
È da considerare che nell’essere cristiani la condizione di tensione, di “crisi”, è in qualche modo inevitabile, dato il divario che comunque esiste tra il richiamo a imitare Cristo e i nostri limiti. Il clima che attualmente si respira tende ad accentuare questa condizione. Ogni situazione critica ha però risvolti non univoci. Può essere uno stimolo ad andare avanti, a superare le nostre difficoltà e i nostri limiti, ma può essere anche motivo di scoraggiamento, di sfiducia di riuscire a migliorarci, di chiusura in se stessi. Sta a ciascuno di noi, nei vari ruoli che ricopriamo nella società civile ed ecclesiastica, a mantenere la tensione verso il bene, senza peraltro dimenticare i nostri ritmi di crescita e i limiti personali.