Quella sera, quella scritta

Dal giugno 1970, subito dopo i Campionati mondiali di calcio vinti dal Brasile di Pelè sull’Italia di Gigi Riva, con i ragazzi della seconda generazione del Movimento studenti eugubino (Vinicio Cacciamani, ’l Gige Lanuti, Renato Rogari, Paolo Lilli, l’infaticabile Lucio Lauri, e Leonardo, suo fratello faticabilissimo) per tutta l’estate c’immergemmo in Capodarco, campi di lavoro uno in fila all’altro. L’ultimo fu quello dell’1-4 novembre.

Ci avevano chiamato per realizzare la piattaforma in cemento sulla quale oggi sorge la grande sala del refettorio. Andammo, un pullmino. I ragazzi lavorarono sodo, la betoniera girò da mane a sera, l’impasto di cemento prese rapidamente a occupare lo spazio dovuto, ma la sera del 3 novembre ci rendemmo conto che con l’unica giornata che rimaneva non ce l’avremmo fatta a finire la gettata.

“Vuol dire che domattina cominciamo alle 4!”. Detto, fatto. Ci alzammo alle 3.30, alle 4 la betoniera riprese a girare, anche durante i pasti. Alla sera la gettata era completa. Cenammo verso le 10. Poi partimmo per Gubbio, sul pullmino che ci aveva procurato il dr. Alessandro, il padre di Alfonso e di Paolo. Dormivano tutti, tranne io e l’autista. L’autista guidava, io pensavo.

Pensavo a una vita alternativa della quale fino ad allora non avevo nemmeno sospettato l’esistenza. Sentivo crescere dentro di me il desiderio di venire a far parte di quella grande famiglia. Mi pareva che i miei primi dieci anni di sacerdozio fossero stati, se non sprecati, perlomeno sotto-utilizzati. Mi pareva che a Capodarco proprio non mancasse nulla per una vita degna di Colui che della convivenza e della condivisione con noi ha fatto il perno della sua presenza tra noi.

Come in un film, mi scorreva innanzi la parte disabile di quella famiglia: chi pendeva a destra, chi pendeva a sinistra, chi si reggeva a fatica sulle canadesi, chi si muoveva solo grazie al girello, chi respirava solo intubato. Ma nessuno piativa sulla propria condizione, nemmeno un po’; non parlavano di handicap, parlavano di emarginazione. Non si piangevano addosso.

Ragionavano su come avrebbero potuto cambiare il mondo, far sì che la Chiesa fosse finalmente ciò che aveva promesso che sarebbe stata. Ciò che di lei aveva detto colui al quale era intitolata la loro casa, Papa Giovanni: “La Chiesa è di tutti, e soprattutto la Chiesa dei poveri”.

Che tu sia handicappato, perché sei nato con un cromosoma per traverso, e perché un tuffo sbagliato ti ha lesionato vertebre importanti… è successo, è un fatto, un evento, che ci vuoi fare? Ribellarsi non serve. Quello contro cui non solo puoi , ma devi ribellarti è l’emarginazione nella quale ti hanno relegato in seguito a quell’evento.

Era fatta. Mi addormentai anch’io, mentre il pullmino correva veloce. E credetti di vedere sul vetro di fondo alla vettura una scritta luminescente. Una Chiesa che, in prima fila, non si prende cura degli ultimi, è solo una congrega di buontemponi.