Il parto della mia autobiografia (Non per loro, ma con loro) si rivela laborioso più del previsto. E io continuo ad anticiparne qualche frammento, mentre un’équipe di ginecologi sta monitorando tempi e modi dell’evento.
Nel 1974, dopo tre anni di vita a Fabriano, condivisa con uno bel gruppo di disabili fisici nella comunità “La Buona Novella”, il primo manipolo di incoscienti si traferì con me a Gubbio per dare vita alla Comunità di San Girolamo (poi “Centro lavoro cultura”, infine Comunità di Capodarco dell’Umbria).
Ci siamo accampati alla bell’e meglio tra le rovine del fatiscente ex convento. Sul monte Ansciano: dei 5 monti presenti sullo stemma di Gubbio, è il primo per chi guarda – sulla destra del monte centrale, l’Ingino, il monte di sant’Ubaldo. Quasi subito da Siena una non meglio identificata assistente sociale (sig.ra Benci?) ci contattò: “Qui in ospedale abbiamo un bambino di dieci anni, tetraparetico e disartrico, ma in buona salute.
Noi possiamo offrirgli solo la pura sopravvivenza. Voi lo accogliereste nella vostra nascente comunità?”. Già. Sua madre l’ha depositato in ospedale sei anni fa, quando aveva quattro anni, ed è scomparsa. “Ha bisogno solo di una famiglia. Lo accogliereste nella vostra comunità, che nasce – ci dicono – come una famiglia?”.
Sì, certo! Andammo a trovarlo. Quinto piano dell’ospedale, gli incurabili. Si chiamava Franco M., oggi si chiama Franco Fanucci. In carrozzina. Sorridente in un reparto nel quale non c’era proprio nulla che autorizzasse un sorriso. Ma quando mi vide, mi chiamò “babbo”, e io andai in tilt. Erano gli anni dell’ideologia a briglia sciolta, che accreditavano i salti logici più spettacolari. “Mi ha chiamato ‘babbo’. Hai capito: babbo!
Vuoi mettere? A noi preti ci chiamano ‘padre’. Vuoi mettere la diversa portanza ideale fra babbo e padre. Vuoi mettere?”. Andammo a Siena in otto, a prelevarlo con un Ford Transit che cantava di gioia.
“Babbo”. Certo che ti prendiamo con noi! Dieci anni: sarai la mascotte della nostra nascente comunità. Poi scoprimmo che “babbo” era l’unica parola che Franco conosceva. Ma stavolta il salto logico, invece di spezzarmi le ossa, mi aveva procurato uno degli eventi più intensi della mia vita.
Perché quando raccontai l’accaduto a Giorgio Battistacci, giudice del Tribunale perugino per i minori, lui mi chiese, al termine di una risata che sembrava non voler finire più: “Perché non lo adotti?”. Detto, fatto. Al mezzo chilo di carte necessarie per l’adozione ci pensò lui.
Quarantacinque anni or sono. Oggi Franco ha 55 anni e ab illo tempore dorme nel letto accanto al mio, dorme di brutto. Il problema è quello di convincerlo a spegnere la tv.