Il dialogo con il luteranesimo e l’anglicanesimo è stato al centro della riflessione che gli ex allievi di Benedetto XVI hanno messo a tema del loro incontro, ormai una tradizione, nel cosiddetto Ratzinger Schülerkreis. E proprio il dialogo ecumenico, o meglio lo “scandalo della divisione”, è stato uno dei temi che più hanno segnato il cammino del Vaticano II. “Il ristabilimento della piena unità da promuoversi fra tutti i cristiani è uno dei principali intenti del sacro Concilio Vaticano II”, e la divisione “non solo contraddice apertamente la volontà di Cristo, ma è anche scandalo al mondo”. Già da queste parole, dalle prime righe del decreto Unitatis redintegratio si capisce l’aria nuova che i Padri conciliari hanno voluto portare nei lavori dell’assise. Parole scritte cinquanta anni fa e, sicuramente, ancora attualissime. Prima del Vaticano II la Chiesa cattolica guardava con grande prudenza al movimento ecumenico, e i suoi esperti ricevevano con il contagocce il permesso per partecipare agli incontri internazionali. L’unità delle Chiese non aveva come parola-chiave il dialogo: era vista più come un ritorno all’ovile dei cosiddetti “fratelli separati”, quasi “dissidenti” che dovevano far ritorno nella Chiesa coprendosi il capo di cenere. Cosa succede con il Concilio? La Chiesa cattolica ammette le proprie lentezze, le proprie colpe nello scandalo della divisione, e riconosce che anch’essa deve innanzitutto convertirsi per portare il proprio contributo alla restaurazione dell’unità. In questo cammino che precede, e accompagna, il Concilio ci sono uomini, storie, momenti che ne segnano i passi, perché la ricomposizione dell’unità venga posta al centro delle preoccupazioni e degli obiettivi della Chiesa. Il primo nome è sicuramente quello del card. Agostino Bea, il gesuita tedesco, ex confessore di Pio XII, nominato cardinale da papa Roncalli e, già ottantenne, messo alla guida del Segretariato per l’unione dei cristiani: è lui il principale artefice del profondo cambiamento di mentalità della Chiesa cattolica sulla questione della unità delle Chiese.
Con lui, come non ricordare il suo successore alla guida del dicastero vaticano, il cardinale olandese Johannes Willebrands, già stretto collaboratore del card. Bea. È lui, Willebrands, a fondare nel 1952 la “Conferenza cattolica per le questioni ecumeniche”. Un lavoro oscuro, spesso ignorato se non addirittura ostacolato, fatto a livello personale e condotto senza aver ricevuto deleghe da parte vaticana, né riconoscimenti ufficiali; ma proprio tutto questo, quel tessere rapporti con esponenti delle Chiese ortodosse e protestanti, ha permesso il grande passo ecumenico del Vaticano II. Certo ci voleva un Papa come Roncalli che già da Patriarca a Venezia aveva intrapreso un cammino di dialogo con le altre Confessioni; un Papa che vuole a Roma una donna, Maria Vingiani, chiamata a dare seguito, nella capitale, all’attività di un Segretariato per le attività ecumeniche messo in piedi timidamente nella città lagunare. Un Papa, ancora, che chiama come perito al Concilio il teologo francese Yves Congar che a metà degli anni ’40, per aver teorizzato un ecumenismo cattolico, è censurato dal Sant’Uffizio, sospeso dall’insegnamento e mandato in “esilio”. E il primo capitolo di Unitatis redintegratio vede cambiare il titolo da “Princìpi di un ecumenismo cattolico” a “Princìpi cattolici dell’ecumenismo”: una trasformazione non da poco. Giovanni XXIII chiama inoltre la Chiesa a guardare più a ciò che unisce e non a ciò che divide, e così si riscopre la profondità dei legami con il mondo ortodosso e si rilegge quell’origine apostolica che parla di fede comune, di sacramenti e del vincolo essenziale del battesimo. Verranno poi altri uomini e altri passi importanti, a cominciare da quel gesto, gennaio 1964, tra Paolo VI e il Patriarca di Costantinopoli Atenagora, che si abbracciano e pregano assieme a Gerusalemme. E questo prima ancora di un atto formale come la cancellazione delle reciproche scomuniche: verrà successivamente e vedrà, alla conclusione del Vaticano II, Papa Montini recarsi a Istanbul nella sede del Patriarcato ecumenico.
È l’inizio del dialogo della carità, che porterà Papa Wojtyla a compiere gesti eclatanti come la visita alla Chiesa luterana di Roma, alla Chiesa ortodossa greca ad Atene con la richiesta di perdono per le colpe commesse dai cattolici in occasione delle Crociate. Ancora i viaggi a Canterbury, la prima volta di un Papa dal Primate anglicano dopo lo scisma di Enrico VIII, al Consiglio ecumenico di Ginevra, e alla sinagoga di Roma. Gesti che Benedetto XVI, nonostante le difficoltà di un dialogo che ha conosciuto e conosce nuovi ostacoli – una teologia legata rigidamente all’idea di autocefalia propria delle Chiese ortodosse, la questione dei beni confiscati e poi, crollati i muri, richiesti dalle Chiese greco-cattoliche, legate a Roma ma che conservano il rito proprio della tradizione orientale; ancora, il conferimento del sacerdozio alle donne nella Comunione anglicana – continua a proporre alla Chiesa. E se Giovanni Paolo II ha parlato di unità nella verità, sottolineando che nel processo ecumenico occorre avere pazienza, che “non significa inattività o rassegnazione” perché la Chiesa cattolica è impegnata nel movimento ecumenico “con una decisione irrevocabile”, Papa Benedetto a Erfurt, la città di Lutero, nel suo discorso nell’antico convento agostiniano dirà: “La cosa più necessaria per l’ecumenismo è innanzitutto che, sotto la pressione della secolarizzazione, non perdiamo quasi inavvertitamente le grandi cose che abbiamo in comune, che di per sé ci rendono cristiani e che ci sono restate come dono e compito. È stato l’errore dell’‘età confessionale’ aver visto per lo più soltanto ciò che separa, e non aver percepito in modo esistenziale ciò che abbiamo in comune nelle grandi direttive della sacra Scrittura e nelle professioni di fede del cristianesimo antico. È questo per me il grande progresso ecumenico degli ultimi decenni: che ci siamo resi conto di questa comunione e, nel pregare e cantare insieme, nell’impegno comune per l’ethos cristiano di fronte al mondo, nella comune testimonianza del Dio di Gesù Cristo in questo mondo, riconosciamo tale comunione come il nostro comune fondamento imperituro”.