Avevo promesso di parlare di come è andata all’Acradu, ma – ahimé! – devo rimandare, perché scrivo sotto l’impressione enorme che ha suscitato in me la visione della fiction televisiva di ieri sera, 2 dicembre: la vicenda di Giorgio Ambrosoli. Fortissima, anche perché raccontata in modo volutamente dimesso: il titolo da teatrino di paese (Qualunque cosa succeda), lui con la sigarette sempre in bocca, mai una proclamazione di principio che non fosse quella, elementare, di sentirsi obbligato al proprio dovere. E vicino a lui quel suo allampanato maresciallo della Finanza, dalla recitazione originale e intensa.
Un canto epico per l’eroico impegno di un avvocato contro Michele Sindona, forse il più potente tra i tanti delinquenti “in guanti gialli” dell’Italia dei nostri giorni, e a beneficio di tanti cittadini medi che la insaziabile sete di denaro e di potere di quell’uomo avrebbe danneggiato, e molto gravemente, visto come si trovava bene lui sia coi potenti che governano sia coi mafiosi che sparano.
Si può recuperare uno dei più antichi generi letterari, l’epica, quello con cui l’Omero del Foscolo, quando approdò nella “Troade inseminata”, fece “gemere gli antri segreti” e li costrinse a dirgli la vicenda di Troia… lo si può, questo genere letterario nobilissimo, adoperare per narrare una vicenda come la liquidazione di una banca? Una vicenda che in sé è pedestre, che di epico ha solo le cifre che i pescecani si garantiscono comunque?
Sì che si può, quando nella vicenda pedestre sono in ballo valori decisivi, in prima fila quello del bene comune.
Poco prima dell’inizio della fiction su Ambrosoli, il Tg ci ha aggiornato sull’ultima, formidabile invenzione della mafia: il suo inserimento attivo nei gangli della pubblica amministrazione di Roma. Gli appalti assegnati dalla pubblica amministrazione che andavano sempre e comunque in quella direzione, con il solito contorno di mazzette destinate a oliare gli ingranaggi. A capo di questa nuova genia di malfattori c’era un ex brigatista rosso: immaginarsi che cosa intendesse per “giustizia” questo poveraccio, quando trent’anni fa abbatteva carabinieri e finanzieri in suo nome!
Bah! Grazie, avvocato Ambrosoli, il Signore ti stringa nel Suo abbraccio!
Sabato scorso, nella lectio divina alla quale partecipo, è venuta fuori una domanda inattesa: cosa dirà Gesù, una volta faccia a faccia con loro, con i vari Alessandrini, Falcone, Borsellino, Chinnici, Ambrosoli, che non avevano certo lo spessore specificamente cristiano del giudice Rosario Liviatino?
Silenzio. Poi qualcuno ha bisbigliato: avrebbe detto loro: “La tua grande fede ti ha salvato”. Già, come disse all’emorroissa che in maniera petulante reclamava la guarigione delle sue perdite di sangue, e al centurione che gli chiedeva in toni molto discreti la salute per un proprio subalterno. “La tua fede”. Dove l’aggettivo non bilancia il sostantivo, ma lo riempie di un significato nuovo.
Qualunque cosa succeda
AUTORE:
Angelo M. Fanucci