Dobbiamo certamente collocare le problematiche di fine vita in un contesto culturale e sociale notevolmente mutato negli ultimi decenni. Infatti il progresso della medicina e il miglioramento delle condizioni di vita e di benessere, almeno nella nostra società, hanno cambiato sostanzialmente la vita, allungandone la durata e migliorandone la qualità. È mutatato tuttavia anche il concetto di morte. In passato il morire era vissuto in casa come un evento naturale dall’intera famiglia, non nascosta neppure ai bambini. Nella nostra èra tecnologica, la morte è circondata da discrezione, quasi a non mettere in imbarazzo quelli che sopravvivono. E così ci sentiamo spesso impreparati anche al concetto di morte, sia come individui pur consapevoli di essere destinati a morire, sia come professionisti chiamati ad accompagnare il malato negli ultimi giorni di vita. L’allungamento della vita media nella popolazione ha comportato un sensibile incremento del numero dei pazienti molto anziani o con graduale declino delle funzioni cognitive, come nella demenza senile, bisognosi di totale assistenza. Anche le malattie tumorali sono in aumento. Peraltro queste oggi vengono affrontate con terapie più appropriate, per cui se ne prolunga la storia naturale, da un lato a vantaggio di una buona qualità di vita, ma dall’altro con il rischio di protrarre situazioni avanzate e gravate da grande sofferenza fisica. Un altro aspetto, non irrilevante fra i problemi di fine vita del nostro trempo, riguarda il numero di pazienti in stato vegetativo permanente, bisognosi di una assistenza continua e totale. Gli interventi di rianimazione, resi possibili dalle tecnologie moderne, consentono la sopravvivenza di molte persone che altrimenti morirebbero, ma determinano anche il recupero di un numero crescente di soggetti che sopravvivono in uno stato vegetativo. Nel nostro Paese i casi emblematici di Englaro e di Welby hanno segnato momenti di dibattito acceso e talora di contrapposizione anche ideologica, che certamente non ha consentito di affrontare il problema all’impronta di un dialogo sereno e costruttivo per la nostra società. Il concetto di morte in senso biologico è ben definito ed ha come paradigma la cessazione di tutte le attività cerebrali. Per questo è lecito eseguire espianti ai fini di trapianto quando tutte le attività del cervello, comprese quelle del tronco cerebrale, sono cessate. Ma come dobbiamo considerare uno stato vegetativo che dura da anni? È davvero una vita inutile? La persona in stato vegetativo perde la sua dignità? In queste condizioni può essere abbandonata e privata anche del fondamentale sostegno vitale quale la idratazione e l’alimentazione? In realtà la sacralità della vita non può essere messa in discussione, per cui anche un malato in grado solo di vita vegetativa autonoma con sprazzi di vigilanza, e con possibilità oggi documentate di recuperi impensabili, merita di essere trattato con la massima cura. Certamente dalla ricerca scientifica si attendono ancora informazioni puntuali che possano fornire al medico e al legislatore indicazioni sulle reali possibilità di recupero di questi pazienti. Al medico va comunque lasciato il giudizio se in alcuni soggetti in stato vegetativo si ravvisi un accanimento terapeutico e se egli possa quindi sentirsi eticamente autorizzato ad interrompere un’inutile idratazione ed alimentazione artificiali o una ventilazione polmonare assistita. Ed ancora, può un medico sentirsi libero in coscienza di facilitare la morte, ovvero di eseguire un intervento eutanasico, quando è questo che chiede il paziente, a causa della sua sofferenza, direttamente o tramite dichiarazioni di cura sottoscritte molto tempo prima? È da tutti accettato il rifiuto di un accanimento terapeutico, inteso come applicazione di procedure diagnostiche e terapeutiche sproporzionate ed inutili ai fini della qualità di vita e di un suo prolungamento. Ma anche in queste condizioni di grande sofferenza, la vita rimane sacra e si esige il rispetto per il malato, al quale deve essere comunque garantita la cura della sua igiene sino al termine dei suoi giorni e la somministrazione corretta delle terapie palliative, per le quali si sono registrati in questi ultimi anni notevoli progressi, rifiutando tentazioni eutanasiche. L’autonomia del paziente e le sue volontà vanno sempre rispettate, come ci ricordano i vari codici giuridici e deontologici, quando si tratta di prendere decisioni in merito a procedure di diagnosi o di terapia. Il problema si pone quando egli ha lasciato precise dichiarazioni anticipate di cura, ovvero un testamento biologico, e al momento non è più in grado di esprimere la sua volontà. Il medico tuttavia, deontologicamente ed eticamente, non può sentirsi vincolato a soddisfare richieste di eutanasia, peraltro non ammessa sinora neppure dai nostri codici giuridici. Come è ben noto, è in corso nel nostro Paese, in un ampio dibattito parlamentare, la procedura di approvazione di un progetto di legge sul “fine vita” già approvato al Senato nel 2009 ed ora affidato alla Camera dei deputati, proprio per definire i limiti e la validità delle dichiarazioni anticipate di cura. Comunque, al di là di questi aspetti etico-giuridici del problema, bisogna ribadire che il malato, se è cosciente, si aspetta anzitutto un accompagnamento nei suoi ultimi giorni di vita, fatto di presenza concreta, di dialogo, di ascolto, di sincerità nell’informazione, una prassi affidata soprattutto al medico e al personale infermieristico. Il senso di solitudine, unito alla sofferenza fisica e alla percezione di creare disagio ai familiari ed agli altri, è motivo di ulteriore sofferenza psichica che può far scattare la molla della richiesta di eutanasia. Se il paziente vede intorno a sé solidarietà, comprensione, e trova sollievo dalla sofferenza con le cure proposte con sollecitudine, difficilmente insiste per la richiesta di eutanasia. Questo è un punto critico. Le decisioni di fine vita spettano da ultimo e comunque al medico, che deve appellarsi alla sua scienza e alla sua coscienza, assumendosi delle responsabilità. Di qui la necessità di una solida preparazione, che è un dovere per il medico e che può essere acquisita con gli anni sia sotto il profilo scientifico-professionale che bioetico. Indubbiamente il medico ha bisogno anche di precisi riferimenti giuridici, ma se si va a ben considerare il problema, ci si rende conto che è difficile affidarsi ad una legislazione che sia in grado di adattarsi con chiarezza a tutte le decisioni di fine vita. Le situazioni cambiano da caso a caso, ed è per questo che oggi sia i giuristi che i medici ritengono che le decisioni di fine vita debbano essere fondate su una “mite” legislazione e su una “forte” bioetica.
Qualità della vita Dignità nella morte
A Perugia il convegno dell’Associazione umbra medici di assistenza primaria
AUTORE:
Fausto Santeusanio