Il Vangelo di domenica prossima è la diretta prosecuzione di quello letto domenica scorsa.
Gesù si è presentato alla sua comunità di Nazaret come il Messia annunciato dal profeta Isaia. Così ci eravamo lasciati, in sospeso circa la reazione suscitata nei suoi compaesani, che con una certa trepidazione lo stavano osservando. Ci potevamo immaginare scene entusiastiche e lacrime di gioia, invece scopriamo che le parole di Gesù generano mormorazione. L’iniziale stupore si trasforma subito in perplessità, circa il fatto che il Messia possa essere uno che viene dalla loro gente, “il figlio di Giuseppe”.
Gesù, come sempre, non gioca in difesa, ma rilancia, leggendo nei loro cuori un desiderio di miracolismo, di veder compiere dei segni eclatanti che possano fugare la loro perplessità. Gesù non vuole questo, non vuole essere osannato come un mago o un guaritore, ma vuole che il suo operato risvegli la fede e un radicale cambiamento di vita. I nazareni invece si mettono ad osservarlo e “testarlo” con scettica incredulità. Gesù prova allora a motivare la sua scelta citando le Sacre Scritture e quegli episodi in cui i profeti Elia ed Eliseo si sono comportati in maniera simile. Ma la gente della sinagoga, anziché mettersi in discussione, chiude definitivamente i conti con Gesù. La goccia ha fatto traboccare il vaso. Quel figlio di Giuseppe è un arrogante e un borioso, oltre che un irriconoscente verso la sua gente. La mormorazione si è trasformata in sdegno. Ecco che siamo invitati dalla Parola a metterci anche noi in discussione e a leggere dentro di noi qual è il nostro atteggiamento nei confronti di Dio. Anche noi lo vogliamo a nostro uso e consumo? Che soddisfi le nostre richieste come un distributore automatico di grazie? Talvolta la nostra fede si riduce a questo.
Ci rivolgiamo a Dio perché appiani la nostra vita, ce la semplifichi dandoci la salute, il denaro, gli affetti, la realizzazione personale. Se qualcosa di questo ci manca, ci sembra di aver ricevuto un torto da Dio e anche noi ci sdegniamo. E questo sdegno porta all’indifferenza, a considerare Dio come un estraneo nella nostra vita. Non abbiamo fatto esperienza che Egli è venuto a cambiare la nostra esistenza, ma non tanto modificando le circostanze che viviamo e le nostre condizioni esterne. Piuttosto è venuto a trasformarci dal di dentro, a cambiare il nostro cuore e con esso il nostro approccio alla vita, al mondo, agli altri.
Ancora una volta san Paolo, nella seconda lettura, ci offre la pista concreta di questa trasformazione: all’opposto dello sdegno e dell’indifferenza c’è la carità. Spendiamo la nostra vita alla ricerca di una fantomatica felicità, del benessere, della tranquillità, del piacere e non ci accorgiamo che ciò che davvero conta è amare di un amore che somigli il più possibile alla carità, cioè ad amare da Dio. San Paolo ci dice che alla fine ciò che conta è solo questo: amare, perché “la carità non avrà mai fine”. Se tutto finirà tranne lei, allora vuol dire che è davvero l’essenziale, che se spremiamo il succo delle nostre vite, ciò che ne uscirà sarà l’amore che saremo stati in grado di vivere. Allora l’obiettivo vero della nostra esistenza non è la salute o l’agiatezza, bensì la crescita nell’amore. Una crescita concreta e quotidiana, fatta di relazioni con gli altri.
Sentendoci amati da Dio cresceremo nell’amore per chi ci sta accanto, alla scuola della carità che è magnanima e benevola, “non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto”. È l’atteggiamento di Gesù, che rifiutato dalla sua gente, non si sdegna e fugge. Anzi compie tre azioni: “si lascia condurre”, “passa in mezzo a loro”, “si mette in cammino”.
La risposta di Gesù al desiderio di morte che ha suscitato tra i suoi amici e parenti è la vicinanza. Rimane con loro, si lascia portare dove vogliono. Ci sembra già di intravvedere il momento in cui sarà davvero condotto a morte. Quanta tenerezza in quest’uomo che risponde al male con il bene! Il suo incamminarsi passando nel mezzo non è casuale: è per essere seguito. Fino all’ultimo spera di guadagnare la loro sequela. Il testo non ci dice che qualcuno non lo abbia fatto, che qualcuno non si sia lasciato conquistare dalla sua docile carità, che “tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”. Anche noi siamo invitati a metterci alla sequela di questo tipo di amore, a crescerci dentro, a farne l’obiettivo principale della nostra vita.