La data di pubblicazione di questo numero de La Voce ci porta diritti tra i lavoratori che celebrano il Primo maggio. Un tempo era tutto rosso, poi si è sbiadito, poi ancora si è ammutolito ed è divenuto un’ occasione per una gita fuori porta. A ben vedere in questo tempo di crisi nessuno ha grande voglia di celebrare la festa del lavoro. Non c’è proprio da stare allegri. Anche se ci saranno le bandiere e i canti a piazza San Giovanni a Roma, la vera celebrazione, si fa per dire, si svolgerà a Rosarno, dove, in questi giorni, sono stati individuati gli sfruttatori di quei lavoratori clandestini, più di mille, che nel gennaio scorso si ribellarono per il disumano trattamento e furono espulsi dal paese. Nel numero precedente de La Voce abbiamo scritto sul lavoro con le parole del vescovo Paglia, del sindacalista Buonanni, del sociologo De Rita, del sindacalista Ulderico Sbarra. Ma ognuno di noi può raccontare storie personali o direttamente conosciute ascoltando giovani che bussano alla porta o più di frequente inviano per e-mail i loro curricoli di vita, chiedendo un posto di lavoro anche precario. Decente, se possibile, comunque un lavoro per incominciare a sentirsi uomini e donne e non soltanto figli e figlie, dipendenti in tutto, ancora e sempre dai genitori.
La logica del mercato, purtroppo, non è tenera, né facile: se non c’è domanda non c’è offerta, se non c’è consumo non c’è produzione, se non c’è guadagno non c’è spesa e così via, in un circolo vizioso che non si sa dove e come spezzare. Il mercato inoltre è divenuto più ampio, mondiale. E pensare che in Europa siamo ancora i più ricchi e fortunati rispetto ai paesi della perenne miseria, dove la penuria del popolo è lo stigma di quella civiltà. Un tempo c’erano parole piene di fascino e fantasia: lavorare meno lavorare tutti. Belle e inutili. È crollata anche la contrapposizione netta e generalizzata tra padroni e lavoratori. Recentemente alcuni imprenditori si sono suicidati per la disperazione di non poter far fronte agli impegni e dover mettere sul lastrico operai e famiglie. Lo Stato imprenditore non ha funzionato. Il capitalismo dei due terzi non funziona, oltre a essere per principio ingiusto. Nella competizione sociale si scatenano gli egoismi tra individui, tra categorie di lavoratori, tra chi lavora e chi è disoccupato. Chi ha un lavoro se lo tiene stretto e, se può, ne cerca un altro, magari in nero.
I sistemi economici fanno acqua e le filosofie sociali e del lavoro sono allo sbando. E allora? L’incertezza e lo smarrimento dominanti non devono condurre alla rassegnazione, ma stimolare le energie interiori presenti nella società per scrollarsi di dosso la supina sottomissione al presunto determinismo economico, per una rivoluzione culturale che metta al centro il lavoro come espressione della persona. Il prossimo anno saranno 120 anni dalla Rerum novarum (1891), l’enciclica pensata in Umbria dal vescovo di Perugia divenuto Papa Leone XIII. Potrebbe esser una data che mette in moto la fantasia e la coscienza degli uomini liberi e onesti, per ridare speranza rimettere in moto il cammino del progresso sociale.