Viene spontaneo, ogni tanto, mettere a confronto i politici di oggi con quelli dell’immediato dopoguerra, gli anni della mia infanzia. Sappiamo che oggi i governanti hanno un compito difficile, ma i problemi di allora non hanno paragone. All’indomani della Liberazione, nel 1945, l’Italia era doppiamente devastata dalla guerra: prima per le immense risorse (anche in termini di vite umane) che erano state bruciate per fare la guerra fuori dei nostri confini, poi per essere stata teatro di una lotta terribile fra due eserciti occupanti. Molte città (pensiamo a Terni) erano ridotte come è oggi L’Aquila dopo il terremoto. Milioni di italiani non avevano, letteralmente, di che mangiare. La moneta si svalutava vertiginosamente. Bisognava ricostruire tutto. Bisognava negoziare (si fa per dire) il trattato di pace, dettato dalle potenze vincitrici che avevamo dissennatamente aggredito: quelle grandi, ma anche le meno grandi, come la Jugoslavia, la più accanitamente vendicativa. Bisognava riportare la pace interna, mentre c’era ancora chi uccideva e preparava le armi per una nuova ondata.
Poi c’erano le grandi scelte da fare: quelle scelte che, una volta fatte e consolidate, ci sembrano adesso scontate, ma allora non lo erano affatto. La scelta fra la monarchia e la repubblica. La scelta fra la democrazia e il totalitarismo. Fra l’occidente delle democrazie e l’oriente di Stalin, come sistemi politici ma anche come sistemi militari. Molti dirigenti democristiani, per dire, erano naturalmente contrari al sovietismo, ma non volevano che l’Italia entrasse nella Nato, l’alleanza militare con gli americani e gli inglesi. E ancora: la scelta di entrare nei primi organismi sovranazionali europei, l’embrione di quell’Europa che oggi ci detta legge ma ci sostiene. Chi erano, come erano, i politici di allora? Uomini che per le loro idee avevano pagato con la prigione, l’esilio e la povertà; e non erano lì per ricompensarsi con ricche prebende, tanto meno per usare il potere al fine di proteggere i loro interessi privati, o per soddisfare le loro ambizioni, ma per servire. Viene lo sgomento a pensarci.