Radici cristiane dell’Europa: questo elemento, una volta inserito nel preambolo della Costituzione europea, imporrebbe un discutibile modo d’intendere il rapporto cristianesimo-cultura, annuncio evangelico-civiltà. La metafora delle radici, infatti, suggerisce un rapporto organico fra eventi-istituzioni-impegno civile da un lato, e predicazione-conversione-testimonianza dall’altro, quasi uno sviluppo continuo, un implicarsi naturale dei due livelli, la fecondità del cristianesimo nei frutti della cultura, la sostanza di questi frutti nelle radici cristiane. Ma questo rapporto è tutt’altro che ovvio e convincente. La predicazione cristiana, con la ‘rinascita dall’alto’ (Gv 3,7) che essa implica, non è in funzione di una civiltà (capacità di soddisfare esigenze vitali, di favorire l’adattamento di gruppi umani all’ambiente, la convivenza e l’integrazione di collettività, lo scambio creativo tra il singolo e la comunità di appartenenza), ma porta in questa, nelle sue forme storiche, un elemento di inquietudine, di incertezza, di speranza: ciò che sembra determinato, necessario, imposto con la forza o legittimato da istituzioni, radicato nell’esperienza di generazioni, assimilato con il linguaggio e la vita stessa, può non essere tutto; può esserci una libertà non naturale, ma dovuta ad una volontà creativa, alla generosità di un dono, fonte di senso e di salvezza, non riconducibile al modello delle leggi di natura. In termini simili può esprimersi il pensiero di tutta la Bibbia, che nel Nuovo testamento sì attua in Gesù di Nazaret, uomo fra gli uomini, portatore di questo dono della libertà per tutti, senza condizioni. Non ci sono ragioni (esterne) perché questo annuncio, trasmesso da chi ha creduto a chi è venuto dopo, venga accolto, se non il riconoscimento dell’individuo che, trovandosi posto nella relazione, scoprendosi interpellato e libero, prende una posizione responsabile. La predicazione, facendosi parola detta per l’individuo, si rigenera creativamente per gli ascoltatori, non può restare chiusa, limitata, e quindi intorno ad essa si riconosce una comunità, non dal basso per affinità originaria dei costituenti, ma dall’alto, per il comune termine di orientamento della loro vocazione e speranza. Se questa è la ‘logica’ della predicazione evangelica, la civiltà europea in che senso può riferirsi al cristianesimo? Poiché quest’ultimo non si fonda su una verità che s’imponga con evidenza schiacciante, ma si affida al riconoscimento e alla fedeltà degli individui e delle chiese in cui si riuniscono, non c’è un espressione diretta, evidente, positiva di cristianesimo nella storia, non c’è un settore del mondo che non sia profano, né una componente riconoscibile e separabile della cultura, che si possa qualificare come cristiana; non si può confondere la presenza di idee, istituzioni, che si riferiscono al cristianesimo con la legittimazione cristiana della loro consistenza storica. Un conto è la fonte della speranza cristiana, la parola a cui si aderisce, su cui non è possibile a nessuno interferire, un altro ciò che si realizza nella storia e nella disponibilità degli strumenti operativi. Si può parlare di testimonianza cristiana, nel senso che i cristiani affrontano la realtà e i soli problemi nella prospettiva della salvezza e della speranza, ma da ciò non si può dedurre una prassi che sia etichettabile come cristiana rispetto ad altre possibili; l’azione ha a che fare con giudizi storici, con operazioni del mondo, con la differenza degli individui e delle situazioni. Una civiltà e una cultura non possono avere radici cristiane, poiché il cristiano s’interroga sul senso della realtà in cui vive, sulle sue implicazioni, sulle responsabilità, a confronto con le richieste della parola ricevuta, delle esigenze che essa pone. Non ne risulta una celebrazione di quello che è stato fatto, un incoraggiamento a continuare secondo linee storiche già tracciate o necessità imposte, ma invece una critica, spesso una ‘disperazione’ per l’infedeltà e il tradimento, non senza la ‘speranza’ della conversione. Ma tutto questo equivale a sradicare, più che a difendere le radici, a scalzare le presunzioni della storia, più che ad affondarle nel passato, a porre radici allo scoperto, paradossalmente, perché possano disseccarsi e tornare feconde con un intervento che non ci è disponibile, in cui possiamo sperare.
Più che di ‘radici’ si dovrebbe parlare di testimonianza cristiana
RADICI CRISTIANE DELL'EUROPA / 2 L'intervento di una studiosa di problemi teologici
AUTORE:
M. Cristina Laurenzi