Per quest’anno, la liturgia del Corpus Domini prevede la lettura del brano dell’Ultima Cena secondo la redazione marciana, da cui però viene espunto l’episodio dello svelamento da parte di Gesù del tradimento di Giuda (Mc 14,17-21). È una scelta che aiuta forse a concentrarsi meglio sull’aspetto eucaristico della Cena, ma che non rende ragione di quanto accaduto, e soprattutto del fatto che, mentre Gesù sta per donare la sua vita, c’è comunque qualcuno che invece si tira indietro. Il senso di quanto deve accadere. Uno degli aspetti più importanti di quella cena è il fatto che Gesù, con le sue parole sul pane e sul calice, spieghi il senso di quanto accadrà da lì a poco.
Se non fossero state conservate le frasi pronunciate da Gesù spezzando il pane e consegnando il calice ai discepoli, potremmo pensare che il suo arresto, la sua condanna e la sua morte – tutti eventi che accadono nell’arco di poco tempo, susseguendosi con estrema rapidità – siano quasi “incidenti di percorso”, scatenati dall’imprevisto tradimento di Giuda. Ma quando Gesù parla del suo corpo spezzato e del sangue suo versato, sa bene cosa dice, perché il dono di sé fa parte del linguaggio dell’amore; ecco perché Gesù insiste sul fatto che essi, corpo e sangue, sono offerti da lui per tutti (è quello che significa qui la parola “molti”), e non presi da chi metterà a morte il Messia. Il primo giorno degli Azzimi.
L’ambientazione temporale in cui è collocata la cena di Gesù coi suoi è la festa pasquale, detta anche degli azzimi, dal fatto che ad essa veniva dato inizio riponendo tutto il pane lievitato che era in casa, fino al punto di doverlo bruciare perché non se ne trovasse più nemmeno una briciola: “Per sette giorni non si troverà lievito nelle vostre case (‘). Non mangerete nulla di lievitato; in tutte le vostre dimore mangerete azzimi” (Es 12,19-20). Quest’inciso temporale ci permette di sottolineare l’ebraicità di quanto raccontato dai Vangeli a proposito della cena pasquale di Gesù. Come bene scrive R. Aron, “questo pasto rimane sempre uno dei momenti più caratteristici della religiosità ebraica, uno dei più rivelatori della vocazione di Israele. Apparentemente si tratta di un pasto normale, e i discorsi che vi si fanno, per quanto rituali, non differiscono molto dalle semplici conversazioni familiari. Tuttavia, nella sua autenticità e nel suo realismo, e mentre sembra considerare Dio stesso come ospite, il Seder evoca il carattere sacro del mondo e della vita e la vocazione storica del popolo di Dio.
Prima di servire al loro uso normale, di sostentamento della vita, gli alimenti sono consacrati da benedizioni che ne rilevano la sacralità. Alcuni anzi, in virtù di un simbolismo quanto mai diretto, evocano addirittura le vicissitudini che attendono un popolo destinato a una missione che lo isolerà dal resto del genere umano. Certi momenti della cena, certi gesti, certe parole, richiamano finalmente il grande evento storico: la liberazione dall’Egitto, la traversata del deserto, di cui la Pasqua fa memoria, o meglio che riattualizza di volta in volta”.
Ci colpisce, però, leggendo i racconti evangelici della cena, la povertà di notizie che essi ci forniscono sul modo in cui si è svolta. Probabilmente la sobrietà dei racconti, al riguardo, si spiega col fatto che “essi ci dicono soltanto quello che di nuovo avvenne in quella occasione, sorvolando su tutti gli altri particolari, perché, trattandosi di un vero e proprio banchetto rituale, che si celebrava ogni anno, hanno ritenuto superfluo descriverlo in dettaglio” (Sofia Cavalletti). La novità sta proprio qui: in quelle parole dette da Gesù. Dentro il pane e dentro il calice. In quelle parole vi è come condensata tutta la storia che Gesù ha vissuto coi suoi discepoli. Se Gesù ha celebrato una cena pasquale, allora le parole da lui pronunciate sono “rimaste” dentro il calice e dentro quel pane.
In particolare, se la coppa che Gesù ha consacrato è stata consacrata dopo il pasto – come dice Luca – allora essa è quella coppa che ogni ebreo benediceva, e benedice tuttora, a chiusura del pasto rituale. Ebbene, quel vino ha in qualche modo “udito” tutto, perché sopra di esso gli ebrei pronunciavano il racconto della loro liberazione da parte di Dio. Quelle parole non andavano perdute, ma venivano “mangiate” e “bevute”, con l’azzimo e col vino. Ecco perché, quando i cristiani oggi celebrano l’eucaristia, fanno esattamente ciò che Gesù ha chiesto di fare. “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”, dice Gesù nella versione della cena di Luca (22,19), e Paolo scrive che Gesù, dopo aver dato il calice, aggiunse: “Fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me” (1 Cor 11,25).
Essere cristiani è, forse, in primo luogo non perdere la memoria di quella sera. Significa ricordare come Gesù abbia amato i suoi e come in loro abbia amato anche noi, fino alla morte. E per far questo, ancora oggi, dopo tanto tempo, celebriamo gli stessi gesti e pronunciamo le stesse parole. Quel pane e quel vino conservano, come allora, la stessa forza. E la Chiesa continuerà a ricordarlo, fintanto che il Signore stesso tornerà a bere con noi, finalmente, quel vino che ha promesso che avrebbe bevuto nuovo (cfr. Mc 14,25).