di Daris Giancarlini
Si dice che la sinistra sia in crisi in tutto il mondo: in Italia di più, a partire dal Partito democratico. Ammesso, e non concesso, che il Pd ‘trasfigurato’ da Matteo Renzi sia ancora un partito ‘di sinistra’ secondo i canoni politologici e storici che abbiamo conosciuto nel secondo dopoguerra.
Comunque lo si voglia etichettare, un partito che dal 40 per cento precipita al 15-16 non può non essere definito in crisi. Dalla quale, in questi giorni, sembra stia cercando di venire fuori annunciando per il marzo prossimo il proprio congresso, innanzi tutto per individuare una nuova dirigenza.
Almeno tre sono i pretendenti: il segretario post-batosta del 4 marzo scorso, Maurizio Martina, l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti.
Tre candidature tutte rispettabili, di persone oneste e concrete; ma basterà per rilanciare il Pd? Un partito che terrà un congresso ‘rifondativo’ dopo un anno dalla sconfitta elettorale dimostra tempi troppo lenti di reazione, sui quali gli avversari hanno nel frattempo lucrato consensi e attenzione mediatica (che poi, alla fine, rischiano di essere la stessa cosa…).
E tutti questi mesi sono passati senza che nessun esponente democratico abbia fatto uno straccio di analisi critica – ma si dovrebbe pretendere autocritica – sulle ragioni del tracollo di consensi. Un fatto, questo, che peserà sul congresso e sul suo esito. Perché non si può guarire da una malattia se non se ne analizzano le cause, con sincerità e senza infingimenti.
Invece un po’ tutti i dirigenti del Pd, nazionali e periferici, hanno preferito defilarsi, in attesa di tempi migliori. Allora diventa ancora di più incomprensibile ascoltare, nei talk show politici, certi esponenti Dem prospettare un nuovo inizio andando a recuperare voti che dal Pd sono andati a Lega e cinquestelle.
Altri interrogativi sulla ‘ripartenza’ Dem sono il ruolo di Renzi (passato da mago dei consensi a male assoluto) ma soprattutto, andando oltre i personalismi, la capacità di un partito – che sembra ancora in coma poco vigile – di mettere insieme tre o quattro obiettivi programmatici che siano originali al punto di non costituire soltanto una critica alle scelte della maggioranza Salvini-Di Maio, e che siano trainanti per quella fetta, consistente, di elettorato di sinistra moderata che il 4 marzo aveva sostenuto le attuali forze di Governo.
Insomma, per il Pd del futuro il problema principale sarà, prima di ‘come’ parlare, a ‘chi’ rivolgersi. E non è una quisquilia.