La santa Settimana si apre con la memoria dell’ingresso in Gerusalemme. Il viaggio di Gesù, iniziato dalla Galilea, sta per concludersi. L’ultima tappa è Betfage, sul monte degli Ulivi. Gesù si ferma e manda avanti due discepoli perché procurino per lui una cavalcatura. Vuole entrare in Gerusalemme come mai aveva fatto prima.
Il Messia, che fino a quel momento si era tenuto occulto, prende possesso della città santa e del Tempio, rivelando così la sua missione di vero e nuovo pastore d’Israele, anche se questo – e lo sa bene – lo porterà alla morte. Non entra però su un carro come il capo di un esercito di liberazione, ma su un puledro ricordando quanto è scritto: “Esulta, figlia di Sion! Fa sentire il tuo osanna, figlia di Gerusalemme! Ecco il tuo sovrano viene a te, umile, cavalcando un asinello, seduto su un puledro d’asina”(Zaccaria 9,9).
Gesù entra come re. La gente sembra intuirlo e si mette a stendere i mantelli lungo la strada com’era uso al passaggio del sovrano. Anche i verdi ramoscelli di ulivo, presi dai campi e cosparsi lungo il percorso di Gesù, fan da tappeto. Il grido “Osanna” (in ebraico vuol dire “aiuta”) esprime il bisogno di salvezza e di aiuto che la gente sentiva. Finalmente arrivava il Salvatore.Gesù entra in Gerusalemme, e nelle nostre città di oggi, come colui che solo può farci uscire dalle nostre schiavitù per renderci partecipi di una vita più umana.
Il suo volto non è quello di un potente o di un forte, ma di un uomo mite ed umile.Passano sei giorni da quell’ingresso trionfale, e il suo volto sarà quello di un crocifisso, di un vinto. È il paradosso della domenica delle Palme che ci fa vivere assieme il trionfo e la passione di Gesù. Il Vangelo di Matteo che in questo anno ci ha accompagnato di domenica in domenica, ci fa entrare con Gesù in Gerusalemme, ma subito, quasi a mostrare la brevità dello spazio che separa l’Osanna dal Crucifige, ci fa uscire di nuovo dalla città per dirigerci verso il Golgota.
Non c’è stata nessuna fuga in Egitto, come all’inizio del Vangelo, ed “Erode” ha potuto condurre in porto il suo disegno. Davvero quel bambino era re, e come tale è entrato nella città santa, ma l’unica corona che gli viene posta sul capo è quella di spine, lo scettro è una canna e la divisa è un manto scarlatto da burla. Quei rami di ulivo, che oggi sono il segno della festa, lo vedranno sudare sangue per l’angoscia della morte. Gesù non fugge, prende la sua croce e con essa giunge sul Golgota, ove viene crocifisso.
Quella morte che sembrò una sconfitta, fu in realtà una vittoria: era la logica conclusione di una vita spesa interamente per il Signore. Davvero solo Dio poteva vivere e morire in quel modo, ossia dimenticando se stesso per donarsi totalmente agli altri. Ognuno di noi porterà a casa il ramo di ulivo benedetto dopo aver cantato assieme: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”.
È il segno della pace che nasce dalla presenza del Signore sotto il tetto del proprio cuore. Ma ci ricorda anche il bisogno che Gesù ha della nostra compagnia, della nostra amicizia, del nostro affetto. Proprio sotto quei secolari ulivi nel Getsemani Gesù, preso dall’angoscia della morte, volle che i suoi, quelli più intimi, gli stessero accanto. E quanto amare sono quelle parole rivolte a Pietro: “Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me?” Il ramo di ulivo sia segno del nostro impegno a stare accanto al Signore soprattutto in questi giorni. È un modo bello per consolare un uomo che va a morire per tutti.