Nel Perù appena visitato da Papa Francesco c’è anche un bel pezzo di Città di Castello. Oltre ai missionari laici che vi lavorano con l’Operazione Mato Grosso, a Huari è vescovo mons. Ivo Baldi che, da prete prima e da vescovo nominato nel 2000, ha vissuto gran parte del proprio ministero in terra sudamericana. Approfittando della moderna tecnologia gli abbiamo chiesto di raccontarci il Perù visitato dal Papa. Lo abbiamo fatto prima della partenza del volo pontificio.
‘Don Ivo’ ha messo subito le mani avanti: “Non posso andare oltre alla realtà che vivo… vescovo semplicemente ‘regionalizzato’ nel mio circuito regionale”. In ogni caso, in Perù Francesco ha trovato le folle, forse più che in Cile, “essendo quella peruviana una società più religiosa, all’antica, meno secolarizzata. Ma nessun Papa è un taumaturgo e la sua visita non risolve i problemi interni della Chiesa locale. Chiama sì alla responsabilità, alla comunione, a una riscoperta maggiore dell’identità cattolica, ma il cammino della Chiesa locale è suo, e a volte deve sbattere la testa”.
Così continua mons. Baldi: “Quando venne Giovanni Paolo II più di trent’anni fa – ricorda – la Chiesa era l’istituzione più considerata, con indici altissimi di stima. Ora si è perso molto, non solo a causa della secolarizzazione che avanza micidialmente, ma della rilettura storica in chiave indigeno-nazionalista del passato, che mette la Chiesa cattolica al primo posto della ‘Conquista’, la cui ferita non si è mai rimarginata…
Come succede anche per altre nazioni e Chiese, neppure il Perù è cattolico come prima. Ma prima lo era veramente? Siamo ancora una Chiesa con una popolazione molto legata a tradizioni e devozioni, ma con poco senso di appartenenza ecclesiale, con scarsa frequenza domenicale. Quasi tutto andava bene nella società che c’è stata fino a cinquant’anni fa, ma ora non basta più, e non sappiamo bene cosa si debba fare. D’altra parte, è sempre difficile la vita della Chiesa in un ambiente che non è più tirato da situazioni drammatiche, come ai tempi delle dittature militari o del terrorismo, quando poteva essere l’unica voce. Come accaduto in Cile ai tempi del card. Silva Enriquez e di Pinochet.
Un organismo fatto per essere profetico come la Chiesa, che essa lo viva o no, fa fatica a vivere in un mondo dominato dalla propaganda commerciale a pro del consumismo. In Perù non ci sono stati grandi scandali sessuali del clero, ma i mezzi di comunicazione sventolano continuamente il caso del Sodalitium Christianae Vitae il cui fondatore, Luis Fernando Figari (ora in Italia), ha sicuramente commesso abusi, mentre si presentava bene ed era anche tenuto in un palmo di mano in Curia.
E poi la crescita degli evangelici, che risponde a radici che affondano anche nel risentimento storico. Noi siamo considerati un ‘popolo testimone’, assieme a Bolivia ed Ecuador, ossia dove le antiche radici andine sono rimaste, dapprima meticciando la religione e dando vita a un cattolicesimo popolare sincretico (specialmente al Sud). Le stesse radici che oggi invece insorgono con rivendicazioni, forse opportune; ma sono guidate da interessi anche economici che guardano al futuro, perché dietro a parole di rivendicazione culturale ci sono grandi interessi sul valore delle materie prime del sottosuolo amazzonico”. In definitiva, “il Papa ha trovato un Paese che è cresciuto molto negli ultimi vent’anni, dopo il periodo di Sendero luminoso, grazie all’esportazione mineraria, ma è in una crisi politica gravissima dovuta alla corruzione che ha raggiunto i sommi vertici dello Stato”.