Il viaggio in Armenia di Papa Francesco ha tre parole chiave: pace, dialogo, unità. E un’immagine simbolo: le due colombe bianche lasciate volare dal Papa e dal Catholicos della Chiesa apostolica armena, Karekin II, che dal monastero di Khor Virap sembrano dirigersi verso il monte Ararat, verso la Turchia. Confine caldo ai tempi della guerra fredda: sotto a quel monastero passava la linea che divideva Patto di Varsavia dalla Nato.
Non meno caldo oggi, a cento anni dal “grande male”, cioè il massacro di oltre un milione e mezzo di armeni cento anni fa a opera dell’Impero ottomano. E la Turchia, com’era prevedibile, non ha digerito il fatto che Francesco, parlando a Yerevan davanti al Presidente dell’Armenia e al Corpo diplomatico abbia utilizzato la parola “genocidio” (il primo del XX secolo) per ricordare quella tragedia. La risposta è affidata al vice premier turco Nurettin Canikli: “Parole molto spiacevoli, che indicano la persistenza di una mentalità delle crociate”. Quella del Papa, ha aggiunto, “non è una dichiarazione imparziale né conforme alla realtà”.
Già lo scorso anno, dopo la messa celebrata in San Pietro a cento anni dal genocidio armeno, la Turchia aveva protestato e richiamato l’ambasciatore: “C’è stato un ‘digiuno ambasciatoriale’. Il diritto alla protesta lo abbiamo tutti” ha commentato il Papa in aereo con i giornalisti. Padre Federico Lombardi della Sala stampa ha chiosato: “Se si ascolta ciò che ha detto il Papa, non c’è nulla che evochi uno spirito di crociata”. Ma la “crociata” ritorna, e Bergoglio, sempre in aereo, aggiunge: “Io non l’ho mai detta con animo offensivo, ma oggettivamente”. Poi pone una domanda: in questo genocidio, come negli altri due compiuti da Hitler e Stalin, “perché le potenze internazionali guardavano dall’altra parte? Perché non sono intervenute?”.
A Yerevan, Francesco ha parlato di memoria “su cui costruire il futuro alla ricerca della pace”, ha parlato di riconciliazione più forte dell’odio e delle divisioni, di ponti da costruire e non muri. E questo vale anche per l’altro confine caldo, con l’Azerbaigian (Paese che visiterà a settembre insieme alla Georgia), a causa del territorio conteso del Nagorno Karabakh: “Proprio perché siamo cristiani, siamo chiamati a cercare e sviluppare vie di riconciliazione e di pace”.
Dialogo, dunque, a più livelli.
Dialogo quanto mai necessario in Europa all’indomani della Brexit. Certo c’è stata la volontà espressa del popolo, ma oggi bisogna lavorare per il bene dei cittadini della Gran Bretagna e dell’Europa, dice Francesco al momento della partenza da Roma, con i risultati appena resi noti ufficialmente. Poi con i giornalisti nel viaggio di ritorno aggiunge: c’è bisogno di una “sana disunione” per salvare l’Unione europea.
Dialogo, dunque, per ricostruire, partendo dalla forza che l’Ue ha avuto nelle sue radici. Forse Francesco pensava anche a quel lungo dibattito per inserire nel preambolo della Costituzione europea il riferimento alle comuni radici giudaico-cristiane del Continente. L’Europa, dice, deve fare un “passo di creatività”, deve dare “più indipendenza, più libertà ai Paesi dell’Unione, pensare un’altra forma di unione, essere creativi, creativi nei posti di lavoro, nell’economia… C’è qualcosa che non va in quell’unione massiccia, ma non buttiamo il bambino con l’acqua sporca”. E aggiunge: “Le due parole chiave dell’Unione europea sono creatività e fecondità”.
Infine unità tra le Chiese, perché “dai cristiani il mondo attende una testimonianza di fraternità, e per questo il cammino ecumenico ha oggi un valore esemplare anche oltre i confini del cristianesimo”. Nella Dichiarazione comune firmata dopo la liturgia a Etchiadzin, il ‘Vaticano degli armeni’, si legge: “Siamo purtroppo testimoni di un’immensa tragedia che avviene davanti ai nostri occhi: innumerevoli persone innocenti uccise, deportate o costrette a un doloroso e incerto esilio da continui conflitti a base etnica, politica e religiosa nel Medio Oriente e in altre parti del mondo. Ne consegue che le minoranze etniche e religiose sono diventate l’obiettivo di persecuzioni e di trattamenti crudeli, al punto che tali sofferenze a motivo dell’appartenenza a una confessione religiosa sono divenute una realtà quotidiana.
I martiri appartengono a tutte le Chiese, e la loro sofferenza costituisce un ‘ecumenismo del sangue’ che trascende le divisioni storiche tra cristiani, chiamando tutti noi a promuovere l’unità visibile dei discepoli di Cristo”. Non manca un riferimento a Lutero le cui intenzioni come riformatore, dice Francesco, “non erano sbagliate”. Forse, aggiunge, “alcuni metodi non erano giusti. Ma a quel tempo la Chiesa non era proprio un modello da imitare”.
La diversità, dice ancora il Papa, è ciò che “forse ci ha fatto tanto male a tutti, e oggi cerchiamo la strada per incontrarci dopo 500 anni. Dobbiamo pregare insieme, lavorare insieme per i poveri, i profughi, la gente che soffre. Lavorare insieme, pregare insieme”. Perché, come si legge nella Dichiarazione comune, ci sono “milioni di esseri umani che attendono con ansia pace e giustizia nel mondo, che chiedono il rispetto dei diritti loro attribuiti da Dio, che hanno urgente bisogno di pane, non di armi”.