La forma più alta di intelligenza non è solo costruire strumenti e macchine artificiali, ma soprattutto inventare argomenti e teorie. Ne era certamente convinto David Bohm (19171992), scienziato americano noto per le sue ricerche sulla fisica quantistica, quando scrisse On Dialogue, libro così importante da formalizzare l’espressione “dialogo bohmiano”.
Con essa si intende un insieme di regole finalizzate a un confronto corretto e produttivo, capace di evitare il Ping Pong game (così lo definiva Bohm) delle discussioni, nelle quali ciascuno vuole solo aver ragione sull’altro, nascondendo i propri presupposti e pregiudizi.
Le logiche della contrapposizione si annidano in ogni contesto dell’agire umano. Succede anche all’interno della comunità scientifica – spiegava Bohm – dove l’esperienza del confronto può essere astiosa e improduttiva. Per questo motivo soltanto una pratica del dialogo “scientificamente” impostata produce concrete possibilità per un buon risultato collettivo generale.
È questo solo uno dei tanti esempi che vengono dal mondo della scienza per lo studio della pace. Oggi si parla addirittura di “matematica della pace”, per indicare i metodi dell’analisi, della logica e della Teoria dei giochi utili per capire a fondo le dinamiche di conflitto e promuovere una cultura della pace.
La ricerca della convergenza, o almeno della convivenza pacifica, tra diverse opinioni e visioni del mondo è però tradizionalmente una prerogativa della filosofia.I due principali significati della pace – negativa (assenza della guerra) o positiva (costruzione della pacifica convivenza) – hanno avuto nella storia molteplici declinazioni.
La pace è questione sociale, ma anche uno stato interiore. La pace è convivenza tra culture e religioni, ma anche prodotto di profonde abilità politiche. La pace è un’utopia, ma anche il risultato di competenze e decisioni.
La filosofia, dunque, prova a rispondere alle grandi domande sulla pace: come è possibile, ad esempio, oggi costruire una convivenza globale pacifica, così urgente nell’epoca delle polarizzazioni digitali, dove i temi più delicati e complessi vengono ridotti alla contrapposizione banale e incompetente di un gioco a vero-falso?
Forse fa sorridere pensare che della pace si possa fare una scienza… non tutti sanno che sono sempre più diffusi i Peace studies e le Peace sciences che vantano ricerche e annoverano studiosi di altissimo profilo internazionale. Non dovrebbe, però, far sorridere la banalità con cui spesso tematiche importanti vengono annunciate e ridotte a slogan privi di senso critico.
È bene allora chiedersi perché volere la pace, perché essa è preferibile. “Gli esseri umani, essendo persone, sono sociali per natura. Sono nati quindi per convivere e operare gli uni a bene degli altri” scriveva papa Giovanni XXIII (Pacem in terris, 16).
Papa Francesco ricorda che “si tratta di essere artigiani della pace, perché costruire la pace è un’arte che richiede serenità, creatività, sensibilità e destrezza” (Gaudete et exsultate, 89). Serenità, creatività e destrezza si radicano nella fede in colui che è Padre di ogni uomo. Serve però anche il contributo di donne e uomini che si sentano responsabili di quanto accade intorno a loro.
Per dare gli opportuni contenuti culturali e pratici è nato il corso in Scienze della pace voluto da Papa Francesco e attivato presso la pontificia università Lateranense. Un percorso accademico che formerà esperti di pace in grado di vedere le interconnessioni profonde che permettono di avvicinare le parti avverse, per orientarle alla risoluzione del conflitto (culturale, sociale, politico) e al bene comune. La pace è impegnativa. Studiarla scientificamente diventa un’ulteriore opportunità per promuoverla e preferirla sempre alla guerra.
Flavia Marcacci
docente di Storia del Pensiero scientifico presso la facoltà di Filosofia della pontificia università Lateranense