In questa settimana in Umbria si celebrano due importanti feste: quella dei Ceri il 15 maggio e quella di santa Rita il 22. È un’occasione per riflettere un momento su questa realtà regionale anche in vista delle prossime elezioni. Naturalmente le feste e le celebrazioni di ogni genere sono un richiamo per il turismo e hanno un riscontro nell’economia. In questo senso, tutte le iniziative e gli eventi di natura ecclesiale e laica hanno un peso e un valore che dovrebbe essere cosiderato con criteri di sviluppo collettivo. Ma una riflessione più articolata ci dovrebbe far ricordare che queste feste sono prevalentemente religiose.
I Ceri di Gubbio sono l’emblema della Regione. Ma i Ceri – con buona pace di alcuni sociologi o studiosi di antropologia culturale che, per alcuni versi, si potrebbe anche chiamare “antropologia del sospetto” – sono ceri, sono lumi, almeno all’origine, portati al vescovo Ubaldo in segno di venerazione e di legame affettivo.
Anche oggi, nelle parole del vescovo Ceccobelli e nella pietà di moltissimi eugubini, sono un modo per ricordare e riannodare il legame con il loro “padre”, santo e patrono, per sempre. Così la comunità conserva e approfondisce la sua identità e riscopre – o dovrebbe riscoprire – i propri valori di fondo, quelli tradizionali che innervano la sua storia, compresa l’architettura, l’urbanistica, la cultura, arte e letteratura.
Le feste in generale hanno questa finalità ed esaltano questa funzione, imprimendo un volto a un territorio e a un popolo. Si pensi al retaggio ereditato da san Francesco e santa Chiara, con tutta la portata del francescanesimo diffuso nel mondo: quello popolare, strettamente religioso, e quello culturale e dotto; lo stesso vale per l’impronta benedettina nei secoli.
Ma riflettere sulla propria identità ci porta anche a domandarci chi ne sia il custode. Un custode è necessario perché tutto non evapori e si disperda nella nebbia del generico e del superficiale, nella banalizzazione e strumentalizzazione per interesse, e per avere un risultato immediato sul piano economico.
Quando si parla di turismo religioso, ad esempio, e di altre simili iniziative, sarà bene ricordare agli organizzatori di non adulterare il “sacro”, di non svenderlo, ponendolo in un pacchetto mischiato con tutti gli altri richiami ed eventi, anche quelli semplicemente distensivi e di pura evasione. Il rischio che si corre talvolta è proprio quello di relegare le feste e le celebrazioni a livello di manifestazioni e spettacoli, oppure interpretandole in base alla categoria del folklore, o guardando solo all’interesse immediato.
In vista del 31 maggio ci si può domandare, ad esempio, se rispecchino questa “identità umbra” certe posizioni di programma da parte dei partiti che si presentano con i loro otto candidati alle elezioni regionali. Non entriamo nel merito, che non ci compete, ma una riflessione la dovrebbero fare i cittadini.
Il popolo umbro, ricompattato da questa ricerca di identità regionale – da non lasciarsi sfuggire né rubare da nessun politico o “maestro di pensiero” – deve essere il custode di se stesso e dei suoi veri interessi e valori.
Veri custodi dovrebbero essere anche coloro che si presentano alle elezioni; possibilmente dovrebbero essere “umbri”, e dunque sensibili, in sintonia con la nostra storia di spiritualità e di misticismo che è prevalentemente cattolico, ma è anche condiviso da altre confessioni.
In Umbria abbiamo una lunghissima tradizione di ecumenismo, dialogo interreligioso e accoglienza dello straniero (l’Università per Stranieri a Perugia data dagli anni ’20 del Novecento), condiviso da laici e cittadini secolarizzati e agnostici. Non parliamo di santa Rita, nota in tutto il mondo, perfino in Estremo Oriente. Non si vuole santificare l’Umbria né essere isolazionisti e autoreferenziali, ma non svendiamo una terra con una bellezza e santità che nessun altro al mondo possiede.