Cronaca di questi giorni. Un giovane padre (28 anni) si uccide dopo aver tentato senza riuscirci di uccidere il nuovo compagno di sua moglie e dopo aver ucciso il figlio di undici anni accorso a difendere la madre e ferito l’altro figlio di cinque anni. Follia, disperazione, odio, accecamento, dolore inaudito. La società si sente anch’essa, e non solo i più diretti parenti ed amici, ferita e lacerata nel profondo. Si può dire una tragedia che è partita da lontano e si è costruita attraverso tante piccole e grandi questioni, risentimenti, tradimenti, incomprensioni, parole e liti. Non giudichiamo nessuno. Non solo gli innocenti figli evidentemente, ma neppure gli adulti coinvolti. Ma ci sembra giusto, da questo e da tanti altri fatti simili, osservare che spesso ci facciamo tanto male da noi stessi. Notizie sconfortanti, ad esempio, di una gravità oggettiva unica, provengono anche dalle strade. Si parla di 50 morti nel passato fine settimana, di 250 durante le feste natalizie, solo in Italia, senza conoscere la carneficina globale in tutte le strade del mondo. Anche in questi casi ci sono vittime e assassini. Ma anche in questo caso non vogliamo giudicare. Ma possiamo almeno considerare che ci facciamo del male da noi stessi: superficialità, fretta, distrazione, maniacale fanatismo della velocità, delle macchine potenti, insofferenza del sorpasso, uso di alcol. Le tragedie non possono essere ricondotte sempre al criterio della fatalità. Abbiamo dimenticato i 26 bambini sepolti sotto i calcinacci della scuola nel terremoto di San Giuliano del Molise. Anche in questo caso chi ha il coraggio di giudicare un sindaco che ha perduto una figlia nel disastro o altri operatori che avevano là dentro amici e parenti? Eppure anche in questo caso non si può e non si deve parlare di fatalità. Forse, come ha affermato Matteini Chiari all’inaugurazione dell’anno giudiziario a proposito degli incidenti stradali, si tratta di “dispregio dell’altrui persona” e anche della propria. E quando questa, la fatalità, sopravviene, come nelle imprevedibili calamità naturali o nelle malattie non causate da sbagliati comportamenti, più facilmente avviene la rassegnazione e l’acquietamento. In quel caso non ci si è fatti del male, ma si è fatto quanto era in nostro potere e la coscienza può placarsi. Se si ha fede si ha il dono del rasserenamento e della pace in una prospettiva di speranza in ciò che è Altro e Oltre. Non che non possa esservi tale prospettiva anche quando sia stata commessa violenza o causato il male a sé e/o agli altri. Ma dopo, con il pentimento che rasenta la disperazione di non poter tornare indietro, di non avere il potere di cancellare il danno, di ridare una vita. Prima, quando si è nel possesso delle proprie facoltà mentali e morali si deve evitare con tutte le forze di compiere il male, sotto tutte le forme, a cominciare da quel piccolo sasso lanciato che rompe l’equilibrio e si rotola fino a diventare valanga travolgente e inarrestabile. Attenti ai sassolini, si dovrebbe dire. E questi sono le parole, parole di pietra che colpiscono e lasciano ferite non facilmente rimarginabili. Senza entrare nella politica e nel costume oggi diffuso della rissa ad ogni costo e delle espressioni pesanti, dei conflitti televisivi, fino all’aggressione fisica in diretta e a quella voglia di dire sempre e tutti male di tutti gli altri. Un po’ di moderazione anche nelle parole e nei giudizi, un po’ di equilibrio…non farebbe male.
Non facciamoci del male
AUTORE:
Elio Bromuri