di Daris Giancarlini
Un tormentone: quello tra politica e giustizia in Italia, dai tempi di Mani pulite, sta diventando un incrocio continuo, ricorrente nel tempo e con modalità che, negli anni, tendono a non cambiare. A prescindere da chi si alterna al governo e all’opposizione. E la presunta Terza Repubblica non è poi così diversa dalle prime due, su questo aspetto.
I cinquestelle, salvando Salvini dal processo per l’ipotesi di reato per sequestro di persona relativo al caso Diciotti, hanno salvato loro stessi e la loro possibilità di rimanere alla guida del Paese. Confermando che il più grosso collante tra forze diverse che si mettono insieme è quello della gestione del potere.
Ora bisogna verificare se il Movimento che, quando era all’opposizione, si schierava senza infingimenti e senza riserve dalla parte dei magistrati, dal “no” al processo al ministro dell’Interno e leader leghista potrà subire un calo di consensi. Nel frattempo, ciò che appare da fuori è che all’interno dei cinquestelle si sia approfondita la spaccatura tra anima ‘giustizialista’ e componente ‘governista’.
Il fatto poi che la decisione su Salvini sia stata assunta dopo una consultazione online, piuttosto confusa nei modi, degli iscritti al Movimento (hanno votato in poco più di 50 mila, e il 59 per cento ha detto ‘no’ al processo per il ministro leghista) è un ulteriore segnale della difficoltà della dirigenza, a partire proprio da Di Maio, di gestire il passaggio da movimento anti-sistema a partito di governo.
Se uno si assume il ruolo di portavoce dei suoi elettori, lo deve fare sempre e ogni circostanza: se questo non avviene, qualcosa non funziona nel rapporto tra eletto ed elettore. E non è certo lo stratagemma, semplicistico se non furbesco, di traslare il momento decisionale alla Rete (la presunta democrazia diretta) a sollevare l’eletto dalle sue responsabilità politiche.
La realtà è che Di Maio, con i grillini (o ex grillini) in calo di consensi, si è trovato nella posizione di chi, qualunque esito fosse emerso, ci avrebbe perso. Mentre, al contrario, Salvini avrebbe vinto comunque in consensi e in immagine, avendo lui stesso sottolineato, tempo fa, che non avrebbe avuto alcun problema a farsi processare.
Ora Di Maio si dovrebbe chiedere se quegli elettori grillini che hanno detto ‘no’ al processo a Salvini continueranno a votare, nei prossimi appuntamenti elettorali, per i cinquestelle. Il quesito che aleggia su tutta la questione, e che riguarda la democrazia italiana in toto, è quello che fa riferimento al rapporto, ancora e di nuovo conflittuale, tra magistratura e politica.
La quale continua a considerare le inchieste giudiziarie che riguardano ministri e parlamentari come un complotto organizzato contro chi, in quel momento, ha il consenso della maggioranza dei cittadini. Lo hanno fatto tutti, negli anni. Con le maggioranze che criticano i giudici e le opposizioni che li difendono.
“Se non avessi fatto politica, i miei genitori si sarebbero tranquillamente goduti la pensione” ha commentato Matteo Renzi, ex premier ed ex leader Pd, sul fatto che il padre e la madre siano stati messi agli arresti domiciliari per un’inchiesta su false fatturazioni. Aleggia, anche qui, la critica sul fatto che la magistratura faccia politica con le sue inchieste. Montesquieu non se lo ricorda nessuno; adesso va di moda (anche se molto impropriamente) Jean Jacques Rousseau.