Il prof. Nembrini a Perugia. Pinocchio, modello del metodo educativo

Sabato 23 novembre, nell’Auditorium della Figc di Perugia, si è svolto un affollatissimo incontro con Franco Nembrini, insegnante, educatore, autore di seguitissime trasmissioni televisive dedicate alla Divina Commedia di Dante, dal 2018 membro del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita. Tema:  “La storia di Pinocchio, modello e paradigma del metodo educativo”. 

L’iniziativa è stata introdotta dal saluto di don Calogero Di Leo, direttore dell’Ufficio Catechistico della Diocesi, che l’ha promossa insieme  agli Uffici di Pastorale Familiare e per l’Educazione e la Scuola e in collaborazione con il Centro Culturale Maestà delle Volte.

La passione per la letteratura e come trasmetterla

Nembrini ha raccontato l’origine della sua passione per la letteratura. A undici anni d’estate andò a lavorare lontano da casa: una notte, mentre trasportava le cassette di merci giù per le scale del magazzino e piangeva desolato, gli tornarono in mente i versi che Dante mette in bocca a Cacciaguida come profezia dell’esilio: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale” (Paradiso 17, 59-60).

“Fui folgorato e piansi di commozione. Tante volte avevo provato  a raccontare a casa il disagio e la fatica, senza trovare mai le parole. Ed ecco che Dante parlava di me! Ho scoperto allora che cos’è l’interesse (‘essere dentro’): Dante parla a me. Quel giorno è cominciato un dialogo con la letteratura che non si è più fermato.”  

Da insegnante, inviterà da subito i suoi studenti a questa avventura, leggendo loro ciò che Machiavelli racconta per lettera a Francesco Vettori: dopo una giornata passata in mezzo a cose e compagnie che lo hanno solo svilito, la sera torna a casa, si toglie le vesti piene di fango e, indossati  “panni reali e curiali” (con il cuore in mano, consapevole della grandezza del proprio desiderio), rivolge le sue domande ai grandi (“entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro”).

L’insegnante è colui che aiuta gli alunni a chiarire le loro domande e li accompagna  a interloquire con i grandi, come lui stesso ha fatto per sé. 

L’educazione

L’educazione non è un travaso di cose dalla testa dell’adulto nella testa vuota di un ragazzo.  E’ invece un dinamismo assicurato dalla natura stessa. Non bisogna “preoccuparsi  di educare.” La scienza dice che un bambino, se ha vissuto per nove mesi nella pancia di una donna contenta, verrà al mondo con un sentimento della vita bello e grande; se invece la madre è sempre arrabbiata o addirittura ostile, farà più fatica.

Compito di adulto dunque è vivere alla grande, perché i figli si auto-educano: alla nascita Dio garantisce a ciascuno l’anima, o (per dirla con Dante) il desiderio, quella tensione inevitabile e indistruttibile al bene, alla felicità, al compimento di sé, che alzando gli occhi e guardando il cielo ci fa domandare: cos’è questa nostalgia davanti alle stelle, al tramonto, alla donna?  chi ha fatto tutto questo per me? Dio fa così ogni mattina e il cuore di ogni uomo è capace di riconoscerlo. L’educazione può solo ripartire da qui.

L’educazione è una comunicazione di sé che avviene vivendo. Educhiamo anche se non vogliamo: per il fatto stesso che un adulto vive, trasmette anche un certo sentimento della vita. I figli ci guardano: ma cosa vedono? Cosa fanno davvero, quando mandano tutto e tutti a quel paese? Non sono cattivi, ma ci stanno disperatamente chiedendo: papà, dammi una ragione per cui io possa seguirti! La risposta più bella e vera di un genitore si trova nel Deuteronomio (6, 20-24). 

Io e la mamma seguiamo queste norme per essere felici come appunto siamo oggi. Ai figli non interessa che i genitori siano bravi o perfetti, ma che siano veri, lanciati in corsa, entusiasti perché c’è tanto bene da guardare, tanto bene da fare, tanto da perdonare. Si chiama testimonianza, o contagio, o incarnazione. Della felicità non si può parlare: o sei felice tu, o non serve. I figli hanno bisogno di incontrare qualcuno che stia davanti alla vita così.

Pinocchio

Venendo a Pinocchio, Nembrini  ricorda che la sua lettura è nata da uno sviluppo dell’intuizione del libro di Giacomo Biffi Contro maestro Ciliegia. Commento teologico a ‘Le avventura di Pinocchio’ (1977). Collodi, ateo dichiarato, provò a scrivere un libro per bambini. Dovendo trovare una lingua adatta, ripescò quella di sua madre che, religiosissima, gli parlava con un linguaggio cristiano.

Così, senza saperlo, senza mai usare parole religiose, ha dipinto la vicenda umana secondo la dottrina della Chiesa. Una storia che comincia con un padre che da un nulla tira fuori un figlio, il quale subito si ribella, se ne va da casa e muore, ma alla fine per l’intervento di una donna compie il suo destino e diventa vero figlio di suo padre: è la storia della salvezza.

Qualche esempio. L’inizio della storia corregge il classico incipit delle favole: “C’era una volta… Un re?… No, un pezzo di legno”. Collodi sembra dire: ontologicamente all’inizio c’è Dio, ma cosa accade esistenzialmente? Nascendo, l’uomo non ha il problema di Dio: apre gli occhi ed è proteso alla sazietà, al compimento, alla felicità. All’inizio si tratta del seno della madre, del latte, poi dei biscotti… 

Via via tende sempre a un nuovo oggetto, lo afferra e in quell’afferrarlo si accorge che il desiderio è più grande,  e procede  di oggetto in oggetto, fino a capire che l’unico oggetto adeguato al desiderio del cuore è l’infinito, l’eterno, e allora si avventura alla ricerca di Dio.

Tutto si decide nel modo in cui stiamo di fronte alla vita. Collodi, prima di introdurre Geppetto, inventa un personaggio che è sconfitto dal suo rapporto con la realtà: Maestro Ciliegia.  Vuole dirci che ci sono due possibili partenze: o con Maestro Ciliegia (che non accetta che quel pezzo di legno non sia niente di più, e allora la paura vince: il razionalismo moderno), oppure con Geppetto il falegname, che guarda le cose con meraviglia  (“voglio un pezzo di legno per farne un burattino meraviglioso!”).

E’ quanto dice Dio dell’uomo che trae dalla materia. Ma il burattino non è ancora finito che già manca di rispetto a Geppetto: “Birba di un figliuolo! Ma oramai è tardi, dovevo pensarci prima.” Dio fa l’uomo, che subito lo tradisce: poteva benissimo rifarlo da capo, invece lo ama (“ti amerò di un amore eterno”).

E’ la fedeltà di Dio, che piange (come Geppetto) avendo già nella coda dell’occhio il Calvario, poiché questa fedeltà gli costerà il Figlio. Potessimo avere questa coscienza al mattino, davanti a un figlio: è troppo grande quello che ho davanti, non si può tornare indietro. Una fedeltà che sa della croce: sentire i figli degni di sacrificio. Ma oggi i figli non li ama nessuno, non li perdona nessuno: c’è l’orfanezza di cui parla papa Francesco.

Pinocchio riesce a liberarsi del padre (“come sarei più libero senza quei rompiscatole  di papà e mamma!”).  Si chiude a casa e dice “Finalmente libero!” E’ il grido della filosofia moderna: siamo finalmente usciti dallo stato di minorità, non dipendiamo più da nessuno. Pinocchio, che pensa di esser più libero perché ha eliminato ogni appartenenza, si ritrova con la natura che diventa cattiva e con una fame tremenda. Non trova nulla da mangiare. Ha gran paura dei tuoni, ma la fame è più grande, e le tenta tutte (non si educa con la paura – perché ai figli non importa nemmeno di morire – ma con una proposta, perché c’è qualcosa di più grande e bello da vedere).

Pinocchio esce di casa, ed ecco la descrizione del mondo adulto come lo sentono i giovani. Va in paese, cioè nella comunità, nel mondo degli adulti. Trova tutto buio, deserto:  chiuse le  botteghe (i luoghi che dovrebbero dargli da mangiare, la scuola, la famiglia, forse la chiesa), chiuse le porte delle case. “Pareva il paese dei morti.”

Allora torna a casa. Nemica la realtà, nemici  gli altri; alla fine, nemico di se stesso, mette i piedi sul focolare pieno di brace e si addormenta. I nostri ragazzi bruciano e intanto dormono, pensano in sogno di fare chissà ché ma nella realtà si consumano per niente.  Chi li sveglierà?  “Sul far del giorno (all’alba del terzo giorno) si svegliò perché qualcuno aveva bussato alla porta.” E’ Geppetto, un adulto che lo va a cercare.

Pinocchio lo riconosce, vorrebbe volare in braccio a suo padre, ma non può perché ha i piedi bruciati. Ecco la situazione di stallo educativo. Apri la porta! Ma la porta non si apre. A chi tocca la prima mossa? A Pinocchio senza piedi? No, all’adulto. Geppetto si arrampica e entra dalla finestra. L’adulto è colui che per ognuno dei figli, o degli alunni, si inventa la strada per raggiungerlo, la finestra per arrivare a lui, e non molla finché non la trova. 

Pinocchio alla fine è diventato un asino. Nel circo si rompe una zampa e capisce che morirà (hai davanti  tuo figlio che è diventato una bestia). Al circo tutti applaudiscono (il contesto non aiuta i ragazzi: più ne combinano, più gli si dice che sono bravi). Pinocchio alza ancora una volta il capo e guarda in alto, vede la fatina con il suo ritratto al collo, si mette a chiamarla ma dalla bocca esce solo un raglio.

Il figlio ti raglia contro, ma l’educatore non si ferma al raglio: sa, crede,  scommette sul fatto che con quel raglio il figlio stia gridando ‘fatina mia!’. Si chiama misericordia. L’educatore dà la vita per l’altro prima ancora che l’altro cambi. Il perdono non è la gentile concessione dell’adulto, perché a perdonare “settanta volte sette” non ce la fa nessuno, nemmeno la mamma più amorevole: è un perdono che precede, è amore. “Padre, perdona loro che non sanno quello che fanno, ma io so che il loro cuore cerca te.” San Giovanni Bosco andava in giro per le strade con le tasche piene di caramelle, incontrava i ragazzi – corrotti, mafiosi, lussuriosi – e trapassava il loro raglio (“qualcuno mi voglia bene, qualcuno mi perdoni”).

Il finale

Geppetto è il papà. Il pescecane è il male, che prende e imprigiona. Pinocchio in fondo al pesce vede il papà. Si rovesciano i ruoli: si diventa figli dei propri figli (Vergine madre, figlia del tuo figlio). Pinocchio vuole fuggire (si può far della vita una cosa grande). E invece Geppetto: “Illusioni,  ragazzo mio…(pensa a studiare…) Ti pare possibile che un burattino come te… (hai solo 15 anni e vuoi insegnarmi qualcosa?)”.

Ma Pinocchio gli risponde: Proviamo e vedrai , vieni dietro a me e non aver paura. Pinocchio fa luce a suo padre, finché arrivano alla bocca del pescecane. Affacciandosi e guardando in alto, Pinocchio scorge un cielo stellato e una splendida luna (Uscimmo fuori a riveder le stelle). Preso in braccio il padre, va verso il mare, l’infinito per cui entrambi sono fatti. 

Un augurio ha concluso l’incontro: che i nostro figli, perdonati a sufficienza, divengano nostri maestri, degni del nostro sacrificio. Che diventino così grandi da poterli seguire.

Alessandra Di Pilla