È’ la festa tutta umbra, quella del Corpus Domini, in seguito al noto miracolo eucaristico di Bolsena del 1263: sangue che fluisce dall’ostia consacrata nelle mani d’un sacerdote dubbioso e cade sul corporale, poi trasferito ad Orvieto dove fu costruita in breve la splendida cattedrale. Papa Urbano IV, che per la impraticabilità di Roma risiedeva nelle più sicure Viterbo, Orvieto, Perugia (ove poi morì nel 1264), riconobbe l’evento come miracoloso, e con la bolla Transiturus dell’8 settembre 1264 istituì la festa liturgica del Corpus Domini. All’eucarestia fu devotissimo san Francesco d’Assisi (+1226), che lasciò questa eredità spirituale ai suoi frati. Da allora il culto verso il segno sacramentale dell’eucarestia crebbe sempre più, ed è stato ulteriormente potenziato dal Concilio Vaticano II, che ne ha parlato in vari documenti sotto diversi aspetti: come fonte e culmine di tutta l’evangelizzazione, della vita e della edificazione della Chiesa, della santificazione di tutti i fedeli, centro e radice della vita del presbitero, ecc.
Per i cristiani di tutte le confessioni e riti, l’eucarestia è un continuo pungolo a camminare verso l’unità, che non è uniformità ovviamente, ma fedeltà a tutto l’evangelo del Signore per realizzare quell’essere una sola realtà (ut unum sint) unita dall’amore, unità e comunione che è segno inconfondibile di origine divina sia per i credenti che per gli increduli. L’eucarestia è il “memoriale” del mistero pasquale lasciato da Gesù agli apostoli con parole ben precise: “Fate questo in mia memoria”. Non è però una semplice commemorazione ricordativa, ma la rinnovazione attualizzante dell’evento centrale della vita di Gesù (il mistero pasquale: passione, morte, risurrezione, ascensione, Pentecoste), che rende presente qui – oggi – per me quell’evento salvifico. C’è quindi nell’eucarestia una qualità di presenza che non è né simbolica né fantastica né celebrativa, ma vera, reale, sostanziale, per quanto sia dato all’uomo di esprimere il mistero pasquale nella sua scaturigine umano-divina.
Non a caso la Chiesa ci fa dire all’esclamazione di lode “mistero della fede”: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta!”. Nelle letture che la Chiesa ci ha proposto per questa festa, incontriamo dapprima un personaggio singolare, Melchisedech, cui è collegato, nella valenza profetica riferita a Gesù, sia il sacerdozio che il sacrificio all’Altissimo. Il riferimento a Melchisedec, perciò, rimanda sia al sacerdote per antonomasia, che è Gesù, sia alla sua offerta sacrificale nel segno sacramentale del pane e del vino. Questa offerta ne prefigurava altra più singolare: quella che avrebbe fatto Gesù sia con il proprio corpo immolato, sia con il proprio sangue versato sulla croce, cioè l’offerta della sua vita per la redenzione di tutti dal peccato.
Nella seconda lettura, tratta dalla Prima lettera alla comunità di Corinto, abbiamo la più antica testimonianza dell’istituzione dell’eucarestia nella santa cena che Gesù fece con i suoi apostoli prima di essere “tradìto” da Giuda e “tràdito”alla plebaglia per essere ucciso (il verbo latino tràdere ha ambedue i significati: Gesù è donato a noi, con tradimento, per la nostra salvezza). Nel brano del Vangelo ascoltiamo il miracolo della moltiplicazione del pane per dar da mangiare ad una grande folla, che nel pomeriggio di quel giorno stava ad ascoltare Gesù nutrendosi di parola di Dio, pane anch’essa per la fame enorme che abbiamo di speranza, di bontà, di incoraggiamento. Tutto è organizzato come in una messa vespertina della prima comunità cristiana, quando più chiese domestiche (cioè famiglie) si riunivano in assemblea per mangiare comunitariamente, come ecclesìa, popolo di convocati, il triplice pane: quello della Parola, quello dell’eucarestia e quello dell’agape fraterna anche con i bisognosi.
Talvolta Gesù nell’eucaristia viene chiamato il “Gesù dimenticato”, perché non c’è più l’abitudine di una visita personale in chiesa o di un’adorazione eucaristica prolungata, o anche la partecipazione in folla al suo percorso tra le nostre case nella processione del Corpus Domini. La disciplina ecclesiale la vuole solennissima, quasi a far vedere al Signore le nostre povertà e il bisogno che abbiamo di lui, del suo ritorno, chiedendoglielo a voce spiegata con il maranathà: “Vieni, Signore Gesù”! Nella processione del Corpus Domini torniamo a fare ala al passaggio di Gesù per le nostre strade!