Il lamento è ormai universale. Ora il responsabile è il Governo tecnico, che mette tasse impossibili. E forse – o senza forse – un’attenzione specifica per evitare di gravare ulteriormente su tante famiglie che, tra caro benzina, mutui e Imu su prima casa, magari con disoccupazione in atto o in vista, fanno davvero fatica ad arrivare alla fine del mese, è più che necessaria. Ma capisco bene che in una situazione di emergenza si rischia, per chi fa i conti all’altezza del “debito sovrano”, di non andare troppo per il sottile. Non dimentico poi – l’onestà mentale lo richiede – che la crisi non l’ha creata il Governo tecnico, ma al contrario abbiamo un Governo tecnico perché c’è la crisi, e la politica si è mostrata assolutamente impari ad affrontarla. È l’ora dunque di tenere i nervi saldi, di non fare demagogia e di metterci in atteggiamento di vera solidarietà, che implica anche la necessità di favorire una sana politica per il superamento del debito pubblico. Perché il discorso – da non esperto – mi pare semplice: se vogliamo una politica di ripresa dell’economia, che conti anche sull’impulso statale, bisognerà pure che lo Stato abbia qualche gruzzolo da investire per la “crescita”.
E allora si tratta di innescare un circolo virtuoso tra contribuzione giusta dei cittadini alle casse dello Stato e utilizzo saggio delle risorse statali a servizio dei cittadini. Obiezione prevedibile: ma togliendo con le tasse “impossibili” (prima casa ecc.) altro denaro dalle tasche dei cittadini, come ripartirà l’economia? Non si rischia di raffreddarla ulteriormente, consolidando e aggravando la recessione in atto? Sempre da non esperto, lo trovo un interrogativo fondato. E allora? C’è davvero il rischio che non se ne venga a capo? Se i politici hanno fallito, e dovessero fallire anche i tecnici, chi ci salverà? Queste problematiche agitano ormai ampiamente l’opinione pubblica. Ma le vado raccogliendo anche nella visita pastorale ogni volta che facciamo il “punto” sulla Caritas, e mi si dice – come in questi giorni nel Gualdese – che aumenta a dismisura la richiesta di aiuto. O come, qualche giorno fa, ci siamo detti con le centinaia di operai della Merloni lasciati fuori da ogni prospettiva di reimpiego.
A un Vescovo non è chiesto di far l’economista, né il politico. Ma da uomo di speranza vado dicendo a tutti di non disperare. E non per dare una patetica parola di consolazione. A insegnarmi a sperare, tenendo i piedi per terra, è stato – naturalmente sulla base del Vangelo – un grande economista dimenticato, ma che è diventato – guarda provvidenza! – “beato” nel bel mezzo della nostra crisi economica: Giuseppe Toniolo. Egli diceva, tra le altre cose, che l’economia non è fatta di leggi rigide e meccaniche, ma porta in sé il principio umano ed etico: in altre parole, è in gran parte questione di valori e di cultura. Da una crisi come quella che stiamo vivendo, possiamo almeno trarre questa lezione: proviamo a chiederci responsabilmente, e tutti, Chiesa compresa, dove abbiamo “sbagliato” e come possiamo riprendere la strada maestra di una economia e di una società a misura d’uomo. Un economista santo, in un momento come il nostro, ha forse una parola da dirci che merita di essere ascoltata.