di Mauro Ungaro (*)
Senti riparlare di “barriere terrestri” fra Italia e Slovenia ed il pensiero corre ad un piccolo cimitero alle porte di Gorizia nel paese ora sloveno di Miren (Merna).
Nel 1947, il Trattato di Parigi stabilì che il confine fra l’Italia e Jugoslavia tagliasse in diagonale proprio quel camposanto. Probabilmente chi discusse i termini dell’articolo 3 del documento nemmeno si pose il problema a che cosa corrispondesse il rettangolo presente sulle mappe che la linea fra le quote 49 e 54 intersecava.
Fra le tombe, nel settembre successivo, i soldati americani piantarono i cippi e posizionarono il filo spinato.
Un’operazione condotta senza alcuna logica umana ma dettata unicamente dalla cecità dei potenti di turno, troppo presi dal proprio tornaconto ideologico immediato per poter ragionare profeticamente tenendo come obiettivo del proprio operare le esigenze e le attese dei popoli affidati alla loro responsabilità.
E così il confine che divideva i vivi fece lo stesso anche con i morti.
Ci furono tombe tagliate letteralmente a metà dalla calce bianca e dalla barriera che vi sorse sopra: parte di esse rimaneva sotto la sovranità di Roma e parte sotto quella di Belgrado. Chi risiedeva dalla parte “sbagliata” rispetto a dove erano sepolti i propri cari ne poteva osservare la lapide solo da lontano, affidando al buon cuore degli ex compaesani o dei familiari – ora cittadini di un altro Stato – l’apposizione di qualche segno di pietà.
Dovettero passare trent’anni perché nel 1975 il Trattato di Osimo spostasse il confine in modo che tutto il cimitero ricadesse sotto la sovranità jugoslava: un anno prima, nel 1974, era stato levato dal suo interno il filo spinato.
Oggi il cimitero di Merna/Miren è anche un luogo museale.
Il visitatore viene accolto dalla scritta Spomni se name, “Ricordati di me” e da un cartello che ne attesta la dedica “a coloro i quali soffrirono a causa del confine, a tutti quelli a cui questo funse da impedimento nel visitare le tombe, a quelli a cui il confine rappresentò la strada verso lo sconosciuto e a tutte le persone che nell’oltrepassare o nel proteggere il confine persero la speranza, la libertà o addirittura la vita”.
Una sequenza di mattonelle segna il tracciato dove correva il filo spinato: ognuna di esse ripete le parole Spomni se name (accompagnate dalle due date significative del 1947 e 1974) ma si arresta dinanzi ad ogni sepoltura.
Un gesto delicato quasi a non voler turbare il riposo eterno in attesa della risurrezione di chi – da vivo e da morto – insieme a migliaia di uomini e donne di queste terre già troppo ha dovuto soffrire nell’ultimo secolo a causa dell’egoismo e della violenza di altri uomini.
“Oggi, il contesto di crisi economica favorisce purtroppo l’emergere di atteggiamenti di chiusura e di non accoglienza. In alcune parti del mondo sorgono muri e barriere. Sembra a volte che l’opera silenziosa di molti uomini e donne che, in diversi modi, si prodigano per aiutare e assistere i profughi e i migranti sia oscurata dal rumore di altri che danno voce a un istintivo egoismo.
Ma la chiusura non è una soluzione, anzi, finisce per favorire i traffici criminali. L’unica via di soluzione è quella della solidarietà. Solidarietà con il migrante, solidarietà con il forestiero…” (Papa Francesco, udienza generale del 26 ottobre 2016). Spomni se name : perché non si ripeta più.
(*) direttore “Voce isontina” (Gorizia)