Sappiamo tutti come il cimitero sia un luogo a senso unico, cioè un luogo di dolore, per cui fare il cappellano di un cimitero significa confrontarsi maggiormente con l’affermazione di san Paolo tratta dalla Prima lettera ai Corinti: “La morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?… Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!” (1Cor 15,54-55.57).
Dal giorno in cui sono stato nominato dal nostro Arcivescovo cappellano del Cimitero monumentale di Perugia (oltre che parroco delle comunità di Casaglia e di Santa Petronila) questa frase dell’apostolo Paolo si è fatta sempre più incisiva nella mia vita e nel mio ministero. Ho avuto chiaro in mente che la mia presenza doveva essere un’opportunità per me e per la gente che incontravo di fare esperienza di questa affermazione: “Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!”. Dio in Cristo ci dà la vittoria sulla morte e sul male che la genera.
Questo ha comportato in me un cambiamento di mentalità e di azione pastorale: essere cappellano del cimitero non significava solo esercitare una pastorale della consolazione, che è di per sé è molto importante, ma che lascia in sospeso ogni domanda e ogni ferita. Significa invece vivere una pastorale ad altezza della statura di ogni uomo che vive tutto proiettato nella ricerca e nella attesa di un compimento, e quindi una pastorale della speranza. Una speranza che nasce dalla fede che è certezza del futuro e di un futuro buono, e che viene magistralmente espressa nel Prefazio dei defunti: “Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta ma trasformata, e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata una abitazione eterna nel cielo”.
Certamente questa coscienza porta al nucleo centrale della fede cristiana, il mistero della risurrezione di Cristo, il Mistero pasquale che tra pochi giorni celebreremo. Infatti in questo periodo di ministero al cimitero la domanda che più mi sono sentito rivolgere è stata: “Ma Cristo è realmente risorto?”, “Ma Dio perdona tutti?”. Sono due domande che mi hanno rivolto due papà i cui figli si sono suicidati per cause diverse ma sempre per lo stesso motivo di fondo, la solitudine che porta alla disperazione. Vedere il volto di quei padri tormentati sia dal dolore per la morte tragica dei figli, sia dalla domanda che assilla la mente e il cuore in queste circostanze: “Dove ho sbagliato come genitore?”, “Ho fallito il mio compito come educatore?”, il sentirsi una persona fallita fa sprofondare nell’abisso della solitudine e della distruzione della vita.
Cercare mille risposte a queste domande rischia di portare alla pazzia, per cui si capisce che non basta la sola consolazione se non è unita alla speranza e alla misericordia.
Non è questione di trovare le parole più adatte alle circostanze, parole più forbite o una pacca sulle spalle, non è con il semplice “è stata una fatalità” che ne possiamo uscire, ma solo con uno sguardo e un cuore carico di tenerezza e di vera compassione per la persona che si ha di fronte. Uno sguardo che diventa condivisione e abbraccio, uno sguardo che diventa amicizia.
Nei vari incontri con i familiari dei defunti – la vedova di Naim, le sorelle di Lazzaro, Giairo – Gesù non si è limitato a parole di consolazione, ma per prima cosa ha offerto un’amicizia, la sua amicizia, la sua persona. Dentro un rapporto con lui, Figlio di Dio fattosi uomo, accade il miracolo della speranza e della vita nuova. Quelle persone sarebbero risorte dal loro dolore indipendentemente dalla risuscitazione dei loro cari. Sì, perché le ferite del cuore e le domande della vita hanno trovato in Cristo non solo la loro risposta ma sopratutto il loro compimento.
Aver ricondotto questi padri a un’esperienza del Dio buono e tenero mediante la preghiera e l’eucarestia domenicale ha fatto subentrare in loro un senso di pace e di consolazione; l’amicizia con me e con la comunità ha permesso che la carne di Cristo toccasse i cuori aprendoli alla speranza non solo della misericordia del Padre, ma soprattutto nella certezza che un giorno quella ferita aperta dal gesto tragico dei figli sarà rimarginata nell’abbraccio eterno con loro. Vederli addolorati ma pacificati è il segno che il Mistero agisce ancora oggi come duemila anni fa.
Morte, dove è la tua vittoria?
AUTORE:
Don Calogero Di Leo