La scorsa domenica abbiamo assistito alla coraggiosa partenza di Gesù alla volta di Gerusalemme, dove si sarebbe compiuta la sua Pasqua. Oggi assistiamo all’invio della prima missione dei suoi discepoli, ai quali dà alcune regole di comportamento. Nella seconda parte della lettura (17-20) assisteremo al ritorno degli inviati, che racconteranno la loro esaltante esperienza missionaria. Quando Luca scrisse questa pagina, erano passati una quarantina o cinquanta anni dai giorni in cui erano accaduti i fatti.
La comunità cristiana a cui l’evangelista si rivolgeva ascoltava quelle parole come rivolte a sé. Oggi la liturgia interpella la nostra comunità cristiana. Tutti noi siamo quegli “altri settantadue” inviati da Gesù. Il versetto di apertura è di grande solennità e pregnanza, nello stile di quella che apriva la lettura della scorsa domenica (9,51): “Il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi”. Faremo attenzione ad alcune espressioni di rilievo. Il gruppo dei missionari è composto di 72 persone (altri antichi manoscritti leggono 70). Numero simbolico: gli antichi ritenevano che 70 o 72 fossero i popoli del mondo.
Vi siamo pertanto compresi anche noi. “Li inviò due a due”. A due a due, perché la loro testimonianza risulti credibile; dicono infatti le Scritture che sulle parola di due o tre testimoni riposa tutta la verità. In due del resto ci si sostiene vicendevolmente e si diventa specchio l’uno dell’altro, nel bene e nel male. “Davanti a sé”. Il testo greco dice: “dinanzi alla sua faccia”. Luca ama molto contemplare – l’abbiamo già visto – la Santa Faccia di Gesù. “In ogni città e luogo dove stava per recarsi”. Insegnamento fondamentale per ogni missionario, mandato non a “convertire” qualcuno, ma semplicemente a preparare l’arrivo del Signore, che farà luce nel cuore di chi lo accoglierà. Più avanti Gesù preciserà l’incarico degli inviati: annunciare le pace, guarire i malati, proclamare la vicinanza del Regno, non ribellarsi quando si è rifiutati, ma semplicemente andarsene, scuotendo anche la polvere che si è attaccata ai piedi per significare la fine di un rapporto; sappiano però che il regno di Dio è passato vicino a loro.
Nel versetto successivo, Gesù parla di messe abbondante e di scarsezza di operai, ed esorta a pregare il padrone della messe perché mandi un maggior numero di operai. L’interpretazione corrente fa riferimento, con mestizia, al contrarsi del numero dei sacerdoti. Gesù non sta parlando di questo. Nessuno dei 72 inviati era sacerdote. La comunità cristiana, a cui Luca direttamente si rivolgeva, sapeva benissimo che fratelli e sorelle cristiani erano chiamati a essere ciascuno un missionario o una missionaria.
I sacerdoti non sono gli unici operai della Vigna: è giunta l’ora che ci assumiamo insieme le responsabilità che ci competono, senza scaricarle pietosamente sulla lamentata “mancanza di preti”. L’esortazione a pregare il Padrone della messe, insegna che ogni cammino missionario deve iniziare con la preghiera. Gesù non promette vittorie e trionfi, né assicurazioni sulla vita; ma dice loro brutalmente: “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”. L’immagine è talmente evidente che non ha bisogno di commenti. Ai primi ascoltatori di Gesù quelle parole richiamavano almeno due passi del profeta Isaia. “Era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Is 53,7). I missionari dovranno andare con la stessa mansuetudine, sapendo che alla fine l’agnello “afono” sarà vincitore per la potenza di Dio.
Un altro passo del profeta Isaia richiama la pacificazione universale: “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà” (Is 11,6). L’annuncio del Regno fatto nella debolezza, senza equipaggiamento, senza pretese di dominio, è la premessa di un futuro mondo pacificato, dove i contrasti saranno appianati, gli opposti riconciliati, a prezzo del sangue del Signore Gesù. L’evangelista non racconta gli episodi vissuti dai singoli missionari, né di quanto è durata la missione; ma va subito al loro ritorno, gioioso e un po’ trionfalistico, colpiti dal successo ottenuto dagli esorcismi: “Anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome”.
Anche Gesù ne esulta: la sua venuta nel mondo ha fiaccato la potenza di Satana, che è già precipitato dal cielo. La potenza del Nome è stato consegnato ai credenti in lui; nulla potrà nuocere o strappare loro la gioia. A questo allude la metafora “potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni”. La vera esultanza dei missionari non stia però in questi successi, ma nel fatto di essere amati da Dio e di avere un posto assegnato nei cieli.