Tempo fa scrivevamo che per molti di noi non è facile comprendere il titolo di questa ultima domenica dell’anno liturgico: “solennità di nostro Signore Gesù Cristo re dell’universo”. La mente va spontaneamente alle residue istituzioni monarchiche, in cui re e regine, almeno nei Paesi più avanzati, non hanno un vero potere, ma sono poco più che figure simbolico-rappresentative. Non così Gesù. Per intendere il significato autentico di questa solennità, dobbiamo entrare nel linguaggio della Bibbia, sempre presente nella liturgia.
La prima lettura narra l’unzione di Davide come re delle dodici tribù di Israele. Il primo re fu Saul, che finì con l’alienarsi la simpatia di una parte del popolo, e a causa della disobbedienza fu ripudiato anche dal Signore. Poi Saul morì in battaglia insieme ai suoi figli; anche il resto della sua famiglia e i suoi seguaci scomparvero; cosicché fu chiaro per tutto il popolo che conveniva seguire tutti insieme questo giovane guerriero, Davide. Da lui ebbe principio quella dinastia che, attraverso complesse vicende, proseguì fino a Gesù Cristo. Fin dalle prime generazioni, i cristiani riconobbero nel re Davide non solo un antenato carnale di Gesù, ma la figura profetica del Re-Messia.
La seconda lettura, tratta dalla Lettera ai Colossesi, è un inno a Cristo Re, sebbene questo titolo non compaia esplicitamente. Quando l’apostolo Paolo la scrisse, l’inno veniva cantato nelle liturgie già prima di lui; egli lo inserì all’apertura della lettera, preceduto da una preghiera di ringraziamento al Padre, “che dalle tenebre ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore”. Gesù quindi è Re di un regno di amore, che nulla ha che vedere con i regni politici e dominatori della terra. L’inno canta Gesù “immagine del Dio invisibile”.
Il Vangelo secondo Giovanni scriverà nel prologo: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). Gesù ha reso visibile in se stesso il Dio invisibile. Per questo gli antichi cristiani cominciarono a dipingere icone di Gesù, convinti che vi si poteva intuire qualcosa di Dio Padre. Poi canta ancora che Egli è prima di tutte le cose; esse furono create in Lui e in vista di Lui. Nella seconda parte si dice che Egli è il capo del Corpo, cioè della Chiesa; che è il primo di tutti noi che risorgeremo dalla morte; che a prezzo del suo sangue ha messo pace fra Dio e tutte le cose esistenti.
La pagina evangelica è nota: descrive la scena immediatamente successiva alla crocifissione di Gesù. Pochi versetti densi di significato. L’evangelista inquadra alcuni personaggi: il popolo, i capi, i soldati, i due briganti crocifissi ai suoi lati. Del popolo dice che “stava a vedere”, pensoso per quanto accadeva. I capi invece lo “schernivano”. Anche i soldati lo deridevano e “gli porgevano dell’aceto”. Uno dei due briganti lo insultava; l’altro invece rimproverava il collega per le sue cattive parole; riconosceva le proprie responsabilità e chiedeva a Gesù di ricordarsi di lui quando sarebbe entrato nel suo Regno.
Sulla bocca di tutti i personaggi risuona una parola cruciale; essa contiene il senso non solo di questa scena, ma dell’intera vicenda storica del rapporto dell’uomo con Dio: “salvare”. I capi sghignazzavano: “Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è il Messia di Dio, l’eletto”. Nell’ideologia classica dei Giudei si aspettava un Messia vincitore. Quel condannato alla pena degli schiavi rivoltosi non poteva essere il Re-Salvatore. I soldati romani furono ancora più diretti: “Se sei il re dei Giudei, salva te stesso”. Parole simili a quelle dei capi dei Giudei, ma con significato e coloriture diverse. Per loro il “salvatore” assoluto era l’imperatore di Roma; come poteva pretendere quel ribelle inchiodato in croce di salvare qualcuno, se non era capace di salvare nemmeno se stesso? Anche il “cattivo ladrone” parlò di salvezza: “Salva te stesso e noi!” Il “buon ladrone” invece gli chiese semplicemente di ricordarsi di lui nel giorno dell’ingresso nel suo Regno.
Con queste parole lo riconosceva Re. In quel momento il mondo culturale giudaico e quello pagano compirono l’antica profezia: “Si sollevarono i re della terra e i principi si allearono insieme contro il Signore e contro il suo Cristo” (Sal 2,2). Dopo la risurrezione di Gesù, un giorno gli apostoli, sfuggiti alle grinfie del tribunale giudaico, innalzarono questa preghiera: “Davvero in questa città Erode e Ponzio Pilato, con le nazioni e i popoli d’Israele, si sono alleati contro il tuo santo servo Gesù” (At 4,27). Essere cristiani è portarsi dentro una certezza: Cristo Re è l’unico che può salvare, non solo dall’inferno nella vita futura, ma anche oggi, dal non-senso, dalla paura, dall’angoscia, dalla disperazione, dall’odio, dai morsi dell’invidia, dalla tristezza.