Continua il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, e continua il suo insegnamento sulla preghiera. La scorsa domenica abbiamo imparato che la preghiera deve essere instancabile, come l’insistenza della vedova con il giudice malvagio; oggi udremo che non deve essere presuntuosa. La qualità della nostra preghiera svela che cosa pensiamo di Dio. L’incipit della pagina evangelica ci informa che si tratta di una parabola rivolta a una precisa categoria di persone: “Gesù disse questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”. Il testo greco si può anche tradurre “rivolto ad alcuni che…”.
Forse Gesù guarda in faccia persone precise: coloro cioè che non sono sfiorati nemmeno dal sospetto di avere, anche loro, qualche debito con Dio e con gli uomini. Non sta parlando della legittima fiducia in se stessi, ma di quella fragile arroganza che sopravvive soltanto disprezzando gli altri; della loro pretesa di appartenere a una categoria superiore. La stessa ostentazione segnala che probabilmente sono meno sicuri di quanto cerchino di apparire. Questi signori sono incarnati dalla figura di un fariseo che sale al Tempio per pregare. Nell’immaginario collettivo, questo personaggio ha indotto molti a identificare ogni fariseo con un ipocrita, presuntuoso. Non è così. Abbiamo avuto altre occasioni per precisare che tra di loro c’erano persone assolutamente rispettabili, che si distinguevano per l’attaccamento alla Legge.
Oggi Gesù ne fa la caricatura: l’opposizione tra il militante di un movimento religioso e un collettore di imposte, peccatore universalmente riconosciuto, la rendeva particolarmente efficace. La preghiera del fariseo è un capolavoro di ipocrisia. Comincia con un ringraziamento di ispirazione autenticamente biblica, come se ne trovano nei Salmi, nella liturgia sinagogale e altrove nella pietà giudaica. Subito dopo però rimaniamo delusi: il motivo del ringraziamento è la propria presunta superiorità rispetto al resto degli uomini. Secondo lui gli altri sono tutti “ladri, ingiusti adulteri”. Poi, per non rimanere troppo sul generico, precisa di non essere nemmeno come l’esattore che era entrato con lui e che era rimasto in fondo. Egli si valuta, si pesa, si misura, si fa giudice di se stesso. E con ciò prende il posto di Dio.
La sua preghiera è in qualche modo atea: in realtà per lui non è Dio che conta; egli è dio di se stesso. Le sue buone opere bastano a dargli la vita. Il fariseo accusa, si paragona e tenta di innalzarsi abbassando gli altri. Sente il bisogno di ricordare a Dio i propri meriti: il digiuno bisettimanale e la scrupolosa osserva delle norme sulla decima, da versare ai sacerdoti del Tempio. La legge mosaica prevedeva il digiuno solo in poche occasioni dell’anno, ma i farisei usavano farlo anche il lunedì e il giovedì di ogni settimana. Dunque il nostro eroe era di stretta osservanza farisaica. In definitiva, questo sciorinare i propri meriti davanti a Dio era un modo di presentargli il conto. Pensa di essersi comprato Dio con le sue buone opere. Il Dio di Gesù Cristo però non è un mercante cui ci si possa presentare da creditori. Egli è Gratuità e Misericordia.
Anche l’altro personaggio, l’esattore, sale al Tempio per la preghiera. Gli ascoltatori dovettero rizzare le orecchie, sentendo che anche un pubblico peccatore saliva al Tempio a pregare. Gli esattori non era simpatici a nessuno: avendo l’appalto per la riscossione dei tributi, sia di quelli dovuti a Erode Antipa, sia di quelli dovuti ai Romani, avevano mano libera nello spremere dal popolo il massimo che potevano, anche al di là del consentito. Consapevole della propria indegnità, l’esattore si ferma a distanza, forse anche per vergogna; il fariseo invece avanzava sicuro di sé fino al limite del cortile riservato ai sacerdoti.
Non avendo l’esattore meriti da presentare a Dio, fa l’unica preghiera possibile: “O Dio, abbi pietà di me, peccatore”. Conosce bene le malefatte legate alla professione; le porta scritte sulle mani. Sa bene di non poterle nascondere al Dio al quale si rivolge; sa che la propria malvagità ha creato come una barriera fra sé e Dio, e che personalmente non ha alcuna possibilità di abbatterla. Per questo chiede a Dio che sia Lui stesso a farlo, ristabilendo una relazione. “O Dio, sii riconciliato con me, peccatore”. A conclusione, Gesù dichiara che l’esattore tornò a casa sua “giustificato”, a differenza del fariseo che riteneva di non aver bisogno di giustificazione: a scanso di equivoci si era già firmato personalmente il certificato di buona condotta. L’esattore, che ha rinunciato a qualsiasi auto-giustificazione, sa con certezza, nel suo profondo, che Dio non ha più problemi con lui. E torna pacificato alla vita di tutti i giorni.