La festa del Corpus Domini di quest’anno trova il suo nucleo centrale nella seconda lettura liturgica: Prima lettera ai Corinzi 11,23-26. La testimonianza di questo scritto sulla Cena del Signore è la più antica in assoluto. Essa è trasmessa anche dai tre Vangeli sinottici, ossia Marco, Matteo e Luca, che sono di poco posteriori rispetto alla 1Cor. Paolo precisa inoltre che sta solo ricordando ai Corinzi l’annuncio fatto agli inizi della comunità; e aggiunge anche di non esserne l’autore, ma di averlo a sua volta ricevuto da quelli che erano in Cristo prima di lui. Tutto rimanda ai primissimi tempi della Chiesa, che già all’indomani della Risurrezione iniziò a “spezzare il pane in comune”, nella certezza della presenza del Risorto.
La comunità cristiana di Corinto era una delle più care a Paolo, ma anche una delle più problematiche e indisciplinate. Gran parte di questa Prima lettera affronta problemi interni alla comunità; soprattutto le divisioni, che si manifestavano anche nei momenti più significativi della vita comune: la Cena eucaristica, vissuta allora come un vero banchetto. I quattro versetti che oggi ascoltiamo ne sottolineano la dimensione conviviale. Accadeva che i cristiani più facoltosi portavano con sé i cibi migliori e più abbondanti, che però non condividevano con quelli che non avevano le stesse possibilità, e che pertanto ne rimanevano umiliati. In questo contesto l’Apostolo inizia col ricordare loro ciò che aveva annunziato qualche anno prima: il kérygma della Cena del Signore. E conclude con parole molto forti: “Chi mangia e beve senza riconoscere il Corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna”.
Non riconoscere il Corpo del Signore vuol dire ignorare che non solo il pane spezzato e il vino versato sono presenza del Risorto, ma anche l’assemblea che si raduna per mangiarne. È pertanto contraddittorio e colpevole affermare di conoscerne la Presenza mentre si spezza il pane e si versa il vino, e ignorarla nel Corpo vivente dei commensali.
L’episodio della moltiplicazione dei pane e dei pesci, narrata nel Vangelo secondo Luca, sottolinea la convivialità del mangiare. Il mangiare è un’esperienza universale. Tutti sanno che l’uomo, come del resto ogni essere vivente, ha bisogno di nutrirsi per vivere. Il cibo che ingeriamo sarà trasformato, in quel meraviglioso laboratorio che è il nostro corpo, e diverrà parte integrante di noi stessi. Mangiare da soli non basta; è necessario fare l’esperienza del mangiare insieme, che crea famiglia, fraternità, amicizia. Le nostre civilizzazioni urbane obbligano spesso a mangiare da soli (vedi: il panino, self-service, McDonald…). Siamo forse di fronte ad una regressione di civiltà. Più che mangiare, è come fornire carburante all’organismo, per metterlo in grado di guadagnarsi altro carburante.
Anche la mente e il cuore hanno bisogno di cibo. Abbiamo tutti bisogno che qualcuno parli con noi, altrimenti qualcosa ci si spegne dentro. La scena narrata dal Vangelo mostra una folla di circa 5.000 persone che hanno ascoltato Gesù per ore, nutrendosi della sua Parola. Ma anche lo stomaco ha le sue esigenze. Si sta facendo sera. In Palestina il buio arriva quasi all’improvviso. Intorno a Gesù c’è il gruppetto dei discepoli, che propongono di licenziare i convenuti per consentirgli di cercarsi un po’ di cena e un alloggio nei dintorni. Gesù però li invita a dar loro stessi da magiare alla gente. Provate a pensare come saranno rimasti.
Qualcuno deve averla presa per una battuta. Il narratore, san Luca, in verità sta preparando il racconto di un ordinato, miracoloso pic-nic sull’erba. Gesù ordina di farli sedere a gruppi di una cinquantina. Poi si fa dare i cinque pani e i due pesci, che forse si erano portati appresso di scorta; alzò gli occhi al cielo; disse la consueta benedizione; li spezzò e cominciò a passarli ai discepoli perché li distribuissero. Spezzava, spezzava, e quei pezzi non finivano mai. Accadeva ciò che secoli prima era accaduto alla giara della farina e all’orcio d’olio della vedova di Sarepta, al tempo di Elia (1 Re 17,9) che non si esaurirono fino a quando non cessò la carestia. Quando tutti ebbero mangiato a sufficienza, i discepoli ne portarono via dodici canestri.
La festa del Corpus Domini ci richiama alla ricchezza del nostro partecipare all’assemblea domenicale. Banalmente diciamo che siamo “stati alla messa”. A noi abitanti del XXI secolo gli attuali segni liturgici non riescono più a comunicare l’esperienza di un banchetto festivo. Eppure più volte, in quei quarantacinque minuti, viene pronunciata la parola “mensa”. Possiamo fare qualcosa perché le espressioni mensa della Parola e mensa eucaristica riacquistino quel ricco senso originale che ha nutrito generazioni di cristiani?