La liturgia di questo domenica mette in parallelo la guarigione di Naaman, un generale siriano dell’VIII secolo a.C., e quella di un anonimo samaritano ai tempi dei Gesù. Tutti e due sono lebbrosi; tutti e due stranieri. Peggio: tutti e due nemici di Israele. Il cammino che li porta alla fede è presentato come esemplare per tutti noi che partecipiamo alla celebrazione domenicale. La prima lettura riporta solo la conclusione dell’episodio del militare siriano lebbroso.
Di lui la Bibbia racconta che, su consiglio di una ragazzetta ebrea rapita in una razzia, si recò dal re di Israele, chiedendo di essere guarito. Il re, insospettito della strana richiesta, lo allontanò, gridando: “Sono forse Dio per dare la morte e la vita…?”. Il profeta Eliseo venne a sapere la cosa e gli mandò a dire di immergersi sette volte nel fiume Giordano. Questi in un primo momento si rifiutò, ritenendola una cosa stupida; poi su consiglio dei subalterni, lo fece, e fu guarito. Grato per quanto gli era avvenuto, tornò dal profeta per ringraziarlo, e riconobbe l’unicità del Dio di Israele, come si narra nella lettura di oggi.
Gesù accennò a questo episodio in occasione del suo primo ritorno a Nazaret, il villaggio della sua infanzia. Dinanzi alla gente che in sinagoga si era arrabbiata per certe sue affermazioni, disse che nessun profeta è bene accolto al suo paese; e citò in proposito l’episodio dell’incontro del profeta Elia con una vedova siriana e quello della guarigione di Naaman, anche lui siriano. Infatti all’epoca, disse Gesù, sebbene in Israele ci fossero molte vedove e molti lebbrosi, Dio manifestò la sua misericordiosa potenza su due stranieri. Questo discorso fece arrabbiare ancora di più i paesani, che non potevano ammettere che Dio preferisse gli stranieri. Tant’è che tentarono di ucciderlo (Lc 4).
Il tema dello straniero è centrale anche nel racconto della guarigione dei dieci lebbrosi. L’episodio avviene durante il viaggio di Gesù verso Gerusalemme. Il gruppo dei lebbrosi cammina fuori del villaggio: la legge vietava loro di vivere in mezzo ai sani, ai quali non potevano nemmeno avvicinarsi. La norma rispondeva a una forma di prevenzione sanitaria; ma aveva a che fare anche con alcune osservanze religiose: un lebbroso era automaticamente considerato un peccatore. Se poi avveniva che guarisse, la cosa doveva essere ufficialmente certificata dalle autorità competenti, che allora erano i sacerdoti. Questo spiega perché il gruppo si ferma a distanza da Gesù e dai discepoli, e anche perché Gesù li inviti ad andare a presentarsi ai sacerdoti.
L’attenzione dell’evangelista Luca però è concentrata su un solo personaggio del gruppo: il samaritano. Lo straniero che tornò indietro a “rendere gloria a Dio”.Tutti e dieci hanno creduto alla parola di Gesù; tutti e dieci si sono messi in cammino; tutti e dieci sono stati purificati dalla lebbra, ma solo uno straniero, un samaritano, si sentirà dire da Gesù: “Alzati e va’, la tua fede ti ha salvato”. Per i nove che non sono tornati a ringraziare, la cosa importante fu ottenere il certificato di guarigione, che permetteva loro di rientrare in famiglia nei rispettivi villaggi. Il samaritano invece capisce che Dio è più importante della salute e percepisce il vivo sentimento di essere entrato in contatto con una Potenza vitale. Egli vede, anzi constata di essere guarito. Questa presa di coscienza attraverso la vista è una risposta allo sguardo di Gesù, che per primo aveva risposto con uno sguardo all’appello dei lebbrosi.
C’è riconoscenza affettuosa in quell’“avendo visto” del samaritano (v. 15) per l’“avendo visto” di Gesù (v. 14). Lo sguardo riconoscente del samaritano è una risposta allo sguardo misericordioso di Gesù. Egli senza esitare né tardare, senza andare dai sacerdoti per ritirare il certificato di guarigione, torna da Gesù; interiorizza la sua guarigione, rafforza la sua fiducia iniziale, completa la sua conversione, sperimenta un inizio di Risurrezione. Questa storia dei lebbrosi dice anche quello che accade nelle nostre vite. Se ci pensiamo un momento, dobbiamo riconoscere che ciò che attendiamo essenzialmente da Dio è la salute, la protezione nei pericoli, il sostegno nella sofferenza…. Non è cosa cattiva, anzi! Ma dovremmo guardare un po’ più in alto. Un Salmo (50,15) coglie sulla bocca del Signore queste parole: “Nella sventura, invocami. Io ti esaudirò e tu mi darai gloria”. Noi, a somiglianza dei dieci lebbrosi, spesso obbediamo alla prima parte del versetto. Il samaritano ne ha compiuto anche la seconda parte. “Glorificare Dio” e “rendere grazie”: sono queste le parole che aspettano di ritrovare il loro significato originario anche nella nostra vita.