Come cappellano della casa di riposo di via Cavour, tra lunedì e martedì scorso ho amministrato per cinque volte il sacramento dell’unzione degli infermi ad altrettanti ospiti. Si chiama così, oggi, quello che un tempo era l’estrema unzione, e la gente la temeva come il segno dell’imminente partenza. A S. Maria di Burano (racconta don Bruno Pauselli) quando lui come parroco entrava in casa dell’infermo con cotta e stola, e in una mano l’aspersorio e nell’altra il piccolo contenitore dorato dell’olio degli infermi, l’interessato si metteva a cantare, e alla domanda perché cantasse, rispondeva: “Perché finché canto non canta lei!”. La mia esperienza come parroco fu in proposito molto diversa. Se uno aveva in casa un persona cara e stava morendo, e io gli chiedevo se potevo andare a somministrargli l’unzione degli inermi, la risposta era: “Ma ancora non ha perso i sensi!”. Un bell’esempio di teologia negativa (possiamo chiamarla così?): per essere dentro la grazia di Dio, occorre essere fuori di testa.
Forse per me quell’incarico che il Vescovo mi ha affidato è stata una grazia di Dio. La morte lì è all’ordine del giorno, come l’arrivo della frutta o la lotta per accaparrarsi l’ascensore. All’ordine del giorno. Nella prima metà dell’anno scorso, su 90 ricoverati ne sono deceduti 21. Lì la morte è troppo frequente per essere tragica. No, è solo spiacevole (di meno non si può).
Ma fuori di lì, quante ne abbiamo inventate, per esorcizzare la morte! A cominciare dal Carnevale, per passare poi al robusto repertorio di gesti scaramantici, alla teorica classica del gatto nero che attraversa la strada, al bisogno di non esporre sulle pareti di casa il ritratto delle persone care che ci hanno lasciato, all’attenzione a non ripassare là dove una persona cara, passando, aveva perso la vita.
Esorcizzare la morte. Ma non ce n’era bisogno! La morte arriva solo quando arriva, e non guarda in faccia a nessuno; e fa parte della vita, soprattutto per noi cui è stato concesso di credere che la morte è solo un chiudere gli occhi sul mondo per riaprirli poco dopo su un altro mondo, infinitamente più bello.
Si può morire come Papa Giovanni, le cui ultime, flebili parole furono rivolte, con l’ultimo, tenue sorriso, al suo segretario mons. Capovilla: “Don Loris, quando tutto sarà finito, vada a trovare sua madre: è troppo tempo che non ci va!”.
O si può morire come Leone XIII. Il suo segretario gli annunciava, com’era suo dovere, che era ora di andarsene, e doveva dirglielo in latino, ma dimenticò qualche particolare della lingua di Cicerone e gli suggerì, quando respirava ancora ma gli occhi eran chiusi da un pezzo: “Beatissime Pater, oportet moriri”. Il Leone morente aprì un occhio e disse: “Sufficit mori”. Lux aeterna!