Con uno dei decreti della presidenza del Consiglio dei ministri l’8 marzo sono state sospese, in via preventiva, le cerimonie civili e religiose su tutto il territorio nazionale.
Contestualmente la Conferenza episcopale italiana, come le Conferenze delle varie regioni ecclesiastiche, in ottemperanza a quanto stabilito dagli organi di governo, hanno diramato diversi comunicati, note e indicazioni pastorali, tutte in fin dei conti con lo stesso risultato: sospensione delle messe con la partecipazione di popolo.
Settimana santa a porte chiuse
Abbiamo atteso con speranza che almeno per la Settimana santa, la grande Settimana, le misure emergenziali si potessero attenuare, invece: Settimana santa a porte chiuse. Questa assenza di popolo e assenza per il popolo ha suscitato non pochi commenti nel mondo ecclesiale, a tutti i livelli. Come spesso accade in una interpretazione avventata della realtà, abbiamo corso il rischio, o nel rischio siamo caduti, di fornire “ricette facili”, che probabilmente non sono frutto – anche se le parti appaiono ben preparate – di una riflessione più attenta e meno ideologizzata.
Quest’ultima infatti dovrebbe proporre una lettura della realtà attuale più ponderata e meno impulsiva. Con questo non intendo esporre una rigorosa riflessione sul tema della messa senza adunanza di popolo; cercherò piuttosto di offrire un contributo che scaturisce dal sincero desiderio di portare equilibrio tra le parti, dove “equilibrio” non è sinonimo di “compromesso”.
Messa senza popolo
Ma ora veniamo al dunque: messa senza popolo sì o messa senza popolo no?
Per rispondere prendo come base del ragionamento il numero 254 dell’Ordinamento generale del Messale romano che così afferma:
“la celebrazione senza ministro o senza almeno qualche fedele non si faccia se non per un giusto e ragionevole motivo”.
Indubbiamente in questi tempi di emergenza sanitaria stiamo vivendo tale “giusto e ragionevole motivo”, che legittima la celebrazione dell’eucarestia con il solo presbitero o con il presbitero e un ministro, ma questa forma rimane un’eccezione all’ordinarietà. Difatti, la ratio che soggiace all’Ordinamento è la stessa della Sacrosanctum Concilium, la quale a sua volta trova ispirazione nella Scrittura e nella Tradizione. La comunità è il soggetto celebrante e non lo è il solo ministro ordinato, il quale fa parte della stessa assemblea presiedendola.
La celebrazione è affare di popolo
Le testimonianze bibliche, come quelle patristiche, come le fonti liturgiche, che non cito perché innumerevoli, concordano sul fatto che la celebrazione dell’eucaristia è affare di popolo e non di singolo. Popolo concreto adunato intorno alla mensa per celebrare il mistero pasquale.
In altre parole, la celebrazione eucaristica è nata e cresciuta in una dimensione comunitaria. La comunità cristiana trova in essa la sua fonte sorgiva. Da questo non si sfugge. È per questo che l’attuale Messale romano nel suo Ordo Missae parla di “populo congregato” e non di “sacerdos parato”, come invece faceva il Messale tridentino, quale condizione per dare inizio alla celebrazione. Eppure ciò che viviamo – faticosamente sia da parte dei laici che del clero – in questi giorni è una liturgia vissuta “sine populo congregato”.
Messa in diretta
Per far fronte a ciò molti sacerdoti hanno pensato di trasmettere le messe in diretta attraverso i social media. Gesto apprezzabile ed espressione di vicinanza, ma che non può in alcuna maniera essere considerato come surrogato di un’assemblea “viva” che si raduna per il rendimento di grazie. Per questo, più che moltiplicare le dirette, si sarebbe potuto recuperare, da parte del clero (e far recuperare al popolo di Dio), il senso di una messa celebrata pro populo seppur in sua assenza.
Infatti, la liturgia, anche se in “forma privata”, è sempre azione di Cristo e della Chiesa tutta che celebra «applicando per la salute del mondo intero l’unica e infinità virtù redentrice del sacrificio della Croce» (Paolo VI, Mysterium fidei).
Un altro aspetto su cui avremmo potuto impegnarci di più è la necessità di recuperare, in questo tempo particolare, la dimensione familiare del celebrare. Far riscoprire alle famiglie il loro essere chiesa domestica, in cui si può lodare il Signore attraverso varie forme. La Liturgia delle ore o l’ascolto e la meditazione della Parola di Dio.
In conclusione, ritengo che tale questione vada affrontata da una prospettiva diversa, più equilibrata, tenendo maggiormente conto della complessa e provvisoria situazione pastorale che tale emergenza sta suscitando nelle nostre comunità cristiane.
La messa senza popolo non può dunque che rimanere un’eccezione, pur sofferta, alla forma ordinaria, che tutti speriamo di riprendere al più presto.
Francesco Verzini
Sarebbe però importante che, insieme con la richiesta della riapertura delle chiese, i vescovi stimolassero i cristiani ad analizzare ciò che il coronavirus può insegnare, soprattutto non illudendosi che il “dopo” possa essere uguale al prima. Non basta cercare di ricominciare, occorre lavorare per cambiare cultura, etica, mondo del lavoro, rapporti interpersonali, economia, ecc. Su questo i cristiani potrebbero offrire un grande contributo, purchè stimolati ad approfondire. Sarebbe sufficiente, ad esempio, cominciare dalla “Laudato si'”. Altrimenti, il puro ritorno al prima crea false illusioni di normalità: non è l’eccezionale -ha detto qualcuno- ma il normale ad essere patologico. Un mondo nel quale 1/3 della popolazione soffre la fame -ad esempio- non pensare di “tornare alla normalità”!
Complimenti don Francesco. Testo equilibrato e chiarificatore.