Meloni dopo Parigi e Londra

Le elezioni che si sono svolte nel Regno Unito e in Francia si sono dimostrate di eccezionale rilevanza non solo per i Paesi direttamente interessati. La storica vittoria dei laburisti a Londra, per quanto ampiamente annunciata, e l’assolutamente imprevedibile esito del voto a Parigi, hanno ribaltato la narrazione che vedeva la destra, anche la più estrema, lanciata in una marcia trionfale apparentemente inarrestabile.

Nel Regno Unito il successo dei laburisti si è accompagnato a un crollo verticale dei conservatori e, nonostante l’exploit di Nigel Farage, si può ben dire che è stata penalizzata la classe politica a cui si deve la Brexit, con le sue conseguenze economiche e sociali. Il che dovrebbe accendere più di un campanello d’allarme tra gli euroscettici e gli antieuropei nostrani.

Il caso francese, a sua volta, investe direttamente le vicende della Ue e quindi anche le nostre, che a quelle sono indissolubilmente legate. Non sappiamo ancora quale governo nascerà a Parigi, ma sicuramente non sarà un governo come quello che sognava la Le Pen, visto il successo del nuovo Front populaire. E tutto sommato lo stesso presidente Macron esce rinfrancato da una scommessa che pure presentava rischi enormi per lui e il suo Paese.

Tenuto poi conto che a Berlino governa il socialdemocratico Scholz e a Madrid il socialista Sanchez, è del tutto evidente che i margini di movimento per Giorgia Meloni siano ristrettissimi.

Nella partita interna al destra-centro italiano, però, il voto francese rappresenta soprattutto un duro colpo per Salvini, che ha un sodalizio robusto e di antica data con la Le Pen, a differenza della premier che è schierata con un’altra famiglia della destra europea. Questa situazione potrebbe spingere la Meloni su posizioni più moderate, trovando una sponda in Forza Italia e rinunciando a rincorrere il leader leghista nelle sue scorribande anti-Ue.

Il problema si pone in maniera speculare nell’altro schieramento. Elly Schlein e i suoi alleati, effettivi e potenziali, hanno ovviamente accolto con entusiasmo il voto di Londra e di Parigi. Ma si trovano di fronte a una scelta molto impegnativa sul piano strategico.

Il modello francese testimonia che la destra può essere battuta con quello che da noi si chiamerebbe “campo largo”; ma se si tratta di presentarsi agli elettori come una maggioranza di governo credibile, il discorso è ben diverso. Il modello britannico, a sua volta, è di tutt’altra natura: un solo partito e una proposta programmatica di stampo riformista.

In ogni caso contano in misura decisiva i sistemi istituzionali ed elettorali. Keir Starmer ha ottenuto circa il 63% dei seggi con il 33,9% dei voti, in virtù di quel sistema uninominale a un turno che è un classico della tradizione inglese e che con alcune varianti piacerebbe anche alla destra di casa nostra.

Tutto lecito, ovviamente, e la vittoria politica dei laburisti è incontrovertibile. Ma si tratta pur sempre di minoranze che diventano maggioranze. Da noi la materia è oggetto di discussione e, anche se si tratta di argomenti ostici, i cittadini dovrebbero tenere gli occhi ben aperti.

Non a caso il presidente Mattarella, parlando a Trieste dei pericoli per la democrazia, ha puntato il dito contro quelle situazioni in cui “il principio ‘un uomo-un voto’ venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori”.

Stefano De Martis

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