Ora che il trambusto delle piazze contro la riforma detta della “Buona scuola” è terminato, l’Italia risente il clima della scuola reale in atto. È la maturità: un appuntamento che richiama la società con un segnale di serietà e qualità. Si fanno tanti esami nella vita e nella scuola, dalla primaria e scuola dell’obbligo alle facoltà universitarie, e tutti sono impegnativi e faticosi, nella vita privata e familiare. Quello di maturità, a parte il rito dell’apertura delle buste sigillate del ministero della Pubblica istruzione – ora c’è il “plico telematico” -, per chi lo fa da studente e anche da docente, lascia un segno che rimane nel tempo.
Attorno all’esame si attivano anche autorità scolastiche nazionali, nel nostro caso la ministra Giannini, già rettore dell’Università per Stranieri di Perugia, e regionali, con informazioni, consigli e raccomandazioni. Per quelli che la affrontano, la maturità costituisce la conclusione di un percorso fatto insieme dagli studenti, spesso anche con docenti che portano quella classe fino all’esame per tutti gli anni del liceo; e dove, pertanto, come è naturale, si intrecciano profonde e durature amicizie.
È anche una svolta: terminato l’esame, ognuno cerca la sua via nel proseguire gli studi o nel cercare un immediato lavoro, prima tutti insieme e poi ognuno per conto suo, salvo rare eccezioni. Il trovarsi così da soli di fronte a scelte fondamentali della vita e della professione esige maturità. E non si tratta della somma delle nozioni raccolte e conservate in memoria – o almeno non solo quelle, anche se saranno sempre utili per la conoscenza e il giudizio di valore sulle cose e le vicende umane – ma maturità intesa come essere in grado di condurre la propria esistenza con consapevolezza e responsabilità.
Si pensi alla responsabilità di scegliere un indirizzo professionale che poi ti lega per la vita. La scuola dovrebbe preparare a fare queste scelte con un occhio anche fuori dall’aula, con esperienze in aziende e ambienti produttivi. Qui però entreremmo nell’intricato e conflittuale discorso della riforma scolastica; discorso che non facciamo, attendendo chiarimenti dalla maxi-conferenza nazionale di luglio promessa da Renzi. Non ci facciamo tuttavia illusioni. Dal tempo di Socrate si discute sul significato dell’insegnare e dell’imparare, del sapere e del ricercare la verità e la bellezza delle cose, del conoscere se stessi e le leggi dello Stato, e nessuno ha trovato la formula definitiva.
Si procede per esperimenti, suscettibili di aggiornamento seguendo la trasformazione della società: cambiamenti a volte lenti e talvolta, come nel nostro tempo, rapidi e radicali. Una cosa che è pure spesso incerta e inadeguata è la situazione economica e professionale degli insegnanti, ai quali è attribuita la competenza e la responsabilità della “maturità” o comunque, per le classi intermedie, del progresso e crescita degli studenti. Un compito importante, delicato e non sempre adeguatamente riconosciuto dalla società.
Nei giorni trascorsi l’opinione pubblica si è meravigliata della vivacità, o si direbbe, della rabbia eccessiva espressa nelle manifestazioni di piazza da parte di docenti e studenti rispetto alla calma e al disinganno di altri. Queste agitazioni, comparate con l’atteggiamento mostrato all’uscita dalle prove, suscitano una domanda spontanea: chi sono questi giovani? Quelli seri e rigorosi nell’esprimere le loro idee, perfino timidi di fronte al microfono di un giornalista che li intervista, o quelli tambureggianti, dal fischietto sonoro e dallo slogan facile delle piazze? Forse questi e quelli. Come li si possa tenere insieme in un’unica valutazione, non è facile dire. Rientra forse nell’enigma dell’essere umano, sempre alla ricerca inesausta di conoscere se stesso.