“Come ti permetti? Con quale coraggio?” Immagino che lo dirà anche il mio avventurato lettore: “Come ti permetti di suggerire cosa debbano fare gli estensori del nuovo Messale prossimo venturo, tu, da quella tua lillipuziana periferia dove conti quanto il due di spade quando briscola è bastoni? Chi ti autorizza a tanto? Che ne sapete, dalle vostre parti? Negli anni ’50 dalle vostre parti, nella chiesa di Santa Croce della Foce le donnette cantavano ‘Santa Madre, deh! Voi frate / che le brache del Signore / luce pressa luce cor’? E tu che ti professi cultore di quel Miserere del Venerdì santo eugubino che nei secoli aveva sostituito Incerta et occulta sapientiae tuae con In cerca et te occutta da Firenze ’n sue, tu pretendi di suggerire quale lessico debbano usare, quale grammatica adottare, quale sintassi seguire a gente che lo studio diurno e notturno dei sacri testi ha fatto ‘macra’ più di quanto le sue enciclopediche letture abbiano fatto con Dante Alighieri?”.
Il fatto è che io, in questa mia lillipuziana periferia, mi sento titolare anch’io del mio spicchietto di Spirito santo. Per carità, appena un flatus vocis che è un miliardo di volte più debole dello Spirito che soffia nelle vele di Papa Francesco, ma anche un miliardo di volte più forte di quello che non riesce a staccare dalla riva la barca/tinozza di Antonio Socci.
E poi mi consola il pensiero che nessuno prenderà in considerazione i miei suggerimenti. E tuttavia continuo a dire quello che sento di dover dire.
Quel verbo “togliere”, ad esempio, che introduce il momento clou, quello che con la comunione chiude nella sua pienezza la celebrazione della messa, ma è proprio quello il verbo giusto? “Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo…” e poco dopo: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo”, preceduto da un “beati gli invitati alla Cena del Signore”. Non dice chi siano né dove abitino questi “invitati alla Cena del Signore”, ma in qualche parte del mondo devono pure trovarsi, e glielo faremo sapere per e-mail che sono stati invitati.
Togliere: è un’amnistia? Tolle, imperativo presente, dice certo il gesto dell’amministratore disonesto che invita i debitori del padrone a cancellare motu proprio quella percentuale di crediti del padrone che sicuramente sfuggirà al suo controllo; ma altrettanto correttamente dice l’urlo del marinaio che al porto di Ripetta scarica sulle spalle di un possente schiavo di colore, bell’e pronta, una balla di cotone pesante due quintali.
È questa seconda la versione che mi affascina. “Beati noi, invitati alla Cena del Signore: ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che prende su di sé e perdona il peccato del mondo”. “Il” peccato, singolare collettivo, ci mette tutti sulla stessa barca, ma Lui i nostri peccati personali li pesa uno a uno e li perdona uno a uno. No, non è un’amnistia, è ben altro. È tutt’altro che un’amnistia.