Per due anni noi dell’associazione “Il Gibbo” abbiano tentato di avere con noi don Andrea Gallo, a Gubbio, inutilmente. Per questo in molti mi hanno chiesto se io lo conoscessi davvero. Si, lo conoscevo bene. L’avevo incontrato nel corso di un convegno che, al solito, l’aveva interessato poco o nulla (“Pareva che parlassimo del sesso degli angeli”); avevo instaurato con lui un rapporto filiale, più di una volta mi aveva accolto a San Benedetto al Porto, nella sua Genova.
Poi, insieme con altri preti, lo adottammo come padre putativo quando, nel 1982, a Sestri Levante, fondammo il Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza. Lo fondammo perché, nella seconda metà degli anni ’70, il settore della lotta alla tossicodipendenza era stato monopolio di Vincenzo Muccioli e di don Pierino Gelmini; quelle comunità terapeutiche il cui successo aveva dato loro alla testa, tanto da rischiare di apparire dei manutengoli del potere meno limpido (ricordate il pulmino del Caf, Craxi-Andreotti-Forlani, parcheggiato all’interno di Molino Silla, ad Amelia?) e della destra più retriva (ricordate la legione degli onorevoli nostalgici e danarosi che a San Patrignano con bella nonchalance lasciavano cadere nel piatto robusti assegni al portatore?).
Ci sembrava, il loro, uno stravolgimento drammatico. Nella nostra memoria storica cristiana le due parole, “comunità” e “terapia”, potevano e dovevano andare insieme, ma mai e poi mai la seconda avrebbe potuto assorbire la prima, mai e poi mai la comunità avrebbe dovuto ridursi ad espediente per risolvere un problema medico o psicopedagogico.
Per questo due preti (don Luigi Ciotti del Gruppo Abele e don Vinicio Albanesi di Capodarco) e un religioso (il clarettiano p. Angelo Cupini, della Comunità di via Gaggio, a Lecco) presero l’iniziativa e gridarono: “Noi siamo comunità, anche ma non soprattutto terapeutiche. Prima di tutto siamo comunità di accoglienza”. Ciotti ci mise la sua capacità di arringare le folle, Albanesi la sua capacità di coniugare ideali supremi e incisive operazioni concrete, Cupini il suo continuo richiamarsi al cuore spirituale dei problemi.
Fu su questa strada che il nostro Cnca incontrò i cosiddetti preti di strada che da anni, in perfetta solitudine, nel tentativo di aprire nuove vie all’evangelizzazione, portavano avanti il primato dell’accoglienza: don Alberto de Nadai, della comunità “Arcobaleno” di Gorizia, don Dante Clauser della comunità “Punto d’incontro” di Trento, don Mario Vatta della comunità “San Martino in Campo” di Trieste.
Era stato Vatta che, nel 1970, aveva scritto: “La nostra vocazione è trovare, immaginare, sperimentare nuove soluzioni e servizi di fronte all’evolversi delle situazioni di bisogno ed emarginazione sociale”. 1970.
Segnatevelo: un antidoto contro eventuali rigurgiti di passatismo.