Finalmente il Senato ha approvato in via definitiva la legge-delega volta all’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà, denominata “reddito di inclusione”. Si tratta di uno strumento universale ma selettivo, condizionato alla situazione economica del beneficiario sulla base dell’indicatore Isee, nonché all’adesione a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa.
Un passo avanti sostanziale nella lotta contro la povertà in Italia: viene infatti introdotto uno strumento strutturale, permanente, e non una misura di semplice tamponamento contro la povertà assoluta; un passo storico che permette all’Italia, anche se per ultima, di allinearsi a tutti gli altri Paesi europei. L’intento è quello di sostenere le persone in povertà assoluta, che l’Istat calcola in 4,6 milioni, circa 1,6 milioni di famiglie, tra cui un milione di minori. Ma le risorse disponibili per questo anno sono di circa 1,6 miliardi, con cui il Governo conta di raggiungere 500 mila minori e più ampiamente fino a 1,8 milioni di persone in 400 mila famiglie.
Ciò ha richiesto di stabilire una priorità per i nuclei familiari con figli minori o con disabilità gravi o con donne in stato di gravidanza accertata o con persone di età superiore a 55 anni in stato di disoccupazione. Il contributo monetario ha il compito di coprire la differenza tra il reddito disponibile del beneficiato e la soglia di povertà assoluta; in questa fase di avvio, data la scarsità di risorse, il contributo sarà ridotto a non più di 480 euro al mese per nucleo familiare.
Di qui l’importanza (come ha osservato Francesco Riccardi su Avvenire del 10 febbraio), per assicurare l’efficacia del provvedimento, degli stanziamenti effettivi dei prossimi anni, e della parte di essi dedicata ai servizi di inclusione attiva delle persone in condizioni marginali. Per il 2018 occorrerà prevedere un importo di più di 2 miliardi di euro e almeno 1,5 miliardi aggiuntivi per ogni anno successivo fino alla copertura integrale dei poveri assoluti. Occorre poi potenziare i servizi territoriali (ben oltre gli importi attualmente stanziati: 170 milioni di euro, più altri 40 per l’assunzione di 600 operatori dei Centri per l’impiego) di formazione, di accompagnamento al lavoro, di cura sociale e sanitaria: essi infatti sono decisivi per evitare o superare l’esclusione, come è stato sottolineato anche nel primo Rapporto (giugno 2016) dell’Osservatorio sulla povertà della Caritas diocesana perugina.
La Regione Umbria – come noto – ha deciso di estendere e integrare tale misura nazionale ampliando sia la platea dei destinatari (tra cui persone disoccupate di lunga durata, persone maggiormente vulnerabili) che il parametro Isee, destinandovi risorse pari a 12 milioni di euro provenienti dalla programmazione comunitaria del Por Fse 2014-2020. A partire dal settembre 2016 ha operato finora contro la povertà l’estensione del Sia al territorio nazionale (Sostegno all’inclusione attiva, sperimentato in precedenza nelle città metropolitane). Sono attualmente disponibili i primi dati parziali – al dicembre 2016 – sull’efficacia del provvedimento nei primi mesi di avvio della misura.
A livello nazionale, delle domande complessivamente pervenute (200 mila) il 65% sono state respinte (per il 25% perché contenenti dichiarazioni mendaci, per il 75% per un punteggio maggiore del punteggio massimo previsto per l’accesso al beneficio). A livello regionale (al 21/12/16) su 1.993 domande presentate agli Uffici di cittadinanza, e 1.485 trasmesse all’Inps, questo ne ha accolte 332. Davanti a un livello di accoglimento così basso, la stessa Regione Umbria ha proposto al Ministero criteri per la ridefinizione dei criteri di accesso.
In un incontro a febbraio tra funzionari della Regione e operatori di Comuni, Inps, Centri di servizi e Caritas, sono emerse numerose criticità riguardanti l’applicazione del Sia, e precisamente in tema di: informazione insufficiente sul provvedimento, scarsità di domande accettate, revisione dei criteri di accesso, composizione delle équipe multidisciplinari (con particolare riguardo alla figura dell’orientatore), istruzione delle domande presentate e rapporti tra Comuni e Inps, nonché tra Inps e uffici postali, connessioni tra domande su fondi Sia nazionale e fondi Sia regionali, tra Comuni e Centri di servizi (in particolare Centri per l’impiego).
Il nuovo Piano sociale regionale dell’Umbria prevede, con riferimento al Sia, che Comuni e zone sociali siano i titolari della gestione. Le linee guida ministeriali dispongono che i Comuni promuovano accordi di collaborazione anche con i soggetti privati attivi nell’ambito del contrasto alla povertà, con particolare riferimento agli enti non profit, tra cui è compresa anche la Caritas, per la predisposizione e l’attuazione dei progetti di presa in carico, per una più efficace programmazione delle molteplici attività (in termini di accompagnamento e lavoro sociale di tutoraggio, sostegno ai percorsi individuali, attivazione di servizi speciali).
In alcune diocesi italiane già dalla prima metà del 2017 sono operativi tali generi di accordi.
Ci sembra, questo, un punto importante da porre all’attenzione, se teniamo conto delle difficoltà di coinvolgimento e partecipazione effettivi di operatori e cittadini, manifestatesi già nelle precedenti esperienze di pianificazione sociale regionale.