Theresa May se lo sta ancora chiedendo: perché tocca a me gestire questa difficilissima e contrastata fase della storia inglese? In effetti il “divorzio” tra Regno Unito e Unione europea sta segnando, nel profondo, la vita del Paese: la politica è spaccata, l’economia per ora regge ma la City trema e alcune multinazionali hanno tutta l’intenzione di voltare le spalle a Londra per piazze più “sicure”, in Germania, Francia o Italia. Nel frattempo le sedi di Eba (Autorità bancaria europea) ed Ema (Agenzia del farmaco), con tutto il loro indotto, lasciano l’isola rispettivamente per Parigi e Amsterdam. Il futuro è incerto: con rigurgiti separatisti in Irlanda e il rischio che, uscendo dal mercato unico, anche le imprese, i commerci e l’occupazione ne soffrano. E pensare – dice fra sé e sé la May – che il referendum sul Brexit l’avevano voluto altri…
Cameron, Farage e Theresa… Occorre tornare alla campagna elettorale del 2015 quando il premier conservatore uscente, David Cameron, per assicurarsi una larga vittoria, promette in caso di rielezione di indire un voto popolare per decidere se restare o uscire dall’Ue, nella quale il Regno Unito era entrato nel 1973. E così avviene.
Il referendum, indetto per il 23 giugno 2016, però sfugge di mano allo stesso Cameron, il quale, infine, si era dichiarato per il “remain”, cioè restare nell’Unione europea. Alle urne si reca il 72% degli aventi diritto: 17 milioni e 410mila sudditi britannici scelgono il “no” all’Europa (51,9%), 16 milioni 140mila si esprimono per il “sì” (48,1%). È il successo degli indipendentisti dell’Ukip guidati da Nigel Farage e dell’ala oltranzista dei Tories, il partito di Cameron. Il Paese si divide in due: Londra città, Scozia e Irlanda del Nord votano per il “remain”, il resto del Paese per il “Brexit” (Britain exit). I giovani sono per l’Europa, anziani e classi meno abbienti per l’uscita.
Capitoli aperti. A pochi giorni di distanza la prima vittima del Brexit è Cameron, che lascia il numero 10 di Downing Street, dove si insedia, un po’ recalcitrante, Theresa May. Da allora fra negoziati per il Brexit, attacchi terroristici su suolo britannico e “guerra di spie” con la Russia, l’azione governativa resta impantanata. Le trattative con Bruxelles vengono affidate a David Davis (che molte voci indicano come aspirante futuro premier) e viene fissato il Brexit Day, il giorno della definitiva separazione dai Ventisette, che scatterà alla mezzanotte del 29 marzo 2019, le 23 ora londinese.Il periodo di transizione durerà 20 mesi. Finora i negoziati sono stati in salita, con frizioni, riconciliazioni, spigoli da smussare. In sostanza il Regno Unito ha dovuto assicurare ai 3 milioni di europei che vivono e lavorano sul suo territorio la tutela di tutti i diritti acquisiti finora (lo stesso trattamento spetterà ai 300mila britannici che risiedono nei Paesi Ue). Londra dovrà però pagare dai 40 ai 45 miliardi di euro alle casse dell’Unione per impegni di bilancio già assunti fino al 2020 (Quadro finanziario pluriennale). Resta in sospeso – e per ora non si intravvede una buona soluzione – la questione dei rapporti tra le due Irlanda: l’uscita del Regno dall’Ue in effetti rialzerebbe le barriere, politiche e doganali, tra Ulster e Repubblica d’Irlanda. Con il rischio di un ritorno a scontri e terrorismo interno.
L’Unione a una svolta? Occorre poi pensare al dopo-Brexit. Quando sarà finito il periodo transitorio, quali rapporti saranno instaurati tra Londra e Ue? Si darà vita a un semplice accordo doganale? Oppure, come preferirebbero le istituzioni comunitarie, si opterà per un “Accordo di associazione” di quelli che si stabiliscono con i Paesi terzi ma “amici” dell’Unione? Si seguirà – altre ipotesi – il modello norvegese (“amici amici”), quello svizzero (accordi bilaterali) o quella canadese (regole commerciali)? Senza contare che Westminster dovrà ratificare gli accordi con l’Ue e non è detto che la May riesca a spuntare una maggioranza. E, proseguendo, se alle prossime elezioni vincesse una maggioranza laburisti-scozzesi, fortemente contrari al Brexit? Londra potrebbe, magari mediante un nuovo referendum, tornare sui suoi passi? In politica non è mai detta l’ultima parola. Nel frattempo il Consiglio europeo del 22 e 23 marzo aveva messo nero su bianco le ultime decisioni in materia, con la convergenza di tutti i leader presenti. Un evento, questo, da non sottovalutare: perché per l’Ue i problemi non mancano. L’uscita di un Paese tanto importante non è certo un buon segnale e obbliga semmai la stessa Unione a un serio esame di coscienza:perché i cittadini britannici hanno ritenuto meglio lasciare la “casa comune” piuttosto che restarvi? Si tratta solo di venti euroscettici e populisti o dietro ci sono serie ragioni legate al distacco tra Unione e cittadini europei che dovrebbero indurre l’Ue a serie ed efficaci riforme?
“Conseguenze negative”. Comunque le “Conclusioni” del summit di primavera, dopo aver recepito l’accordo sinora raggiunto tra David Davis e il negoziatore europeo Michel Barnier, ricordano che ci sono ancora diversi capitoli aperti. Il Consiglio europeo “chiede di intensificare gli sforzi sulle rimanenti questioni concernenti il recesso”, in particolare Irlanda e Gibiliterra. Quindi il Consiglio europeo “ribadisce la determinazione dell’Unione ad avere un partenariato quanto più stretto possibile con il Regno Unito in futuro”.
Tale partenariato “dovrebbe riguardare la cooperazione commerciale ed economica nonché altri settori, in particolare la lotta al terrorismo e alla criminalità internazionale, come pure la sicurezza, la difesa e la politica estera”. “Al tempo stesso, il Consiglio europeo deve tenere conto delle posizioni del Regno Unito, espresse a più riprese, che limitano la portata di detto partenariato futuro. La mancata partecipazione all’unione doganale e al mercato unico produrrà inevitabilmente attriti in ambito commerciale. Le divergenze nelle tariffe esterne e nelle norme interne, nonché l’assenza di istituzioni comuni e di un ordinamento giuridico condiviso, rendono necessari verifiche e controlli a difesa dell’integrità del mercato unico dell’Ue e del mercato del Regno Unito, il che avrà purtroppo conseguenze economiche negative, in particolare nel Regno Unito”.