di Stefano De Martis
Tra pochi giorni si concluderà lo stato d’emergenza legato alla diffusione del Covid. Il Governo ha già varato il piano di progressivo allentamento delle restrizioni. Anche se la pandemia è ancora in grado di fare danni, e quindi bisognerà monitorarne l’andamento con particolare attenzione almeno per tutto il mese di aprile, si tratta di un appuntamento lungamente atteso e desiderato.
Il comprensibile sollievo che questo passaggio porta con sé si scontra però con l’angoscia e l’orrore suscitati anche nel nostro Paese dalla terribile guerra d’invasione scatenata dalla Russia in Ucraina, con conseguenze umanitarie devastanti e profonde ripercussioni economiche. Al livello del sentire collettivo è come se si fosse passati da un’emergenza a un’altra, senza soluzione di continuità. Anche se nei momenti più acuti della crisi da Covid è stata spesso evocata la dimensione bellica, fare paragoni tra la pandemia e la guerra è evidentemente improponibile. Può diventare persino “odioso” (è il termine utilizzato dal premier Draghi) se lo si fa per motivi strumentali, come nel caso dell’attacco all’Italia e al nostro ministro della Difesa da parte di un diplomatico russo. L’unica analogia possibile, pur con i distinguo necessari, è nella risposta che ogni emergenza richiede, a tutti i livelli, cominciando da quello istituzionale e politico.
Senso di responsabilità e spirito unitario – auspicabili in ogni contesto – diventano un dovere stringente quando ci si trova a fronteggiare un pericolo potenzialmente distruttivo e si richiede un impegno straordinario di solidarietà. Essi rappresentano anche i presupposti per un ruolo significativo dell’Italia nel drammatico scenario internazionale di queste settimane.
La causa della pace ha bisogno di soggetti coesi e credibili, che sappiano cogliere anche il minimo spiraglio utile, e allo stesso tempo non offrano sponde con atteggiamenti ambigui o, peggio ancora, conniventi. Mettere bene in chiaro chi è l’aggressore e chi l’aggredito non vuol dire indossare l’elmetto ma parlare un linguaggio di verità. Il punto di riferimento comune non può che essere l’articolo 11 della Costituzione, che va letto tutto insieme: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
È un unico comma, in cui il solenne “ripudio” della guerra come strumento di aggressione e di risoluzione delle controversie non si esaurisce in una mera rinuncia, ma risulta strettamente legato alla possibilità di limitare la “sovranità” a vantaggio di “organizzazioni internazionali” che perseguano attivamente l’obiettivo di assicurare “la pace e la giustizia”. Sembra quasi di sentire il profeta: opus iustitiae pax.